Le parole contano!
Disabile, handicappato, invalido, inabile, diversamente abile (o diversabile!!), menomato, minorato, infermo, offeso, infelice, cerebroleso… Capita spesso di arrampicarsi sulle parole per chiamare, definire o descrivere un altro con una disabilità, incerto sia sui termini da usare in riferimento alla sua “diversità”, sia su quelli da non usare per non rischiare offese e brutte figure! Qualcuno, per non correre rischi, si rifugia nel “politically correct” utilizzando in modo forzato parole correttissime oppure, al contrario, precipitando in un pietismo così becero e peloso da diventare insopportabilmente falso!
Peggio ancora, qualcuno (…e non pochi!) usano i termini handicappato, mongoloide, ritardato, spastico con un’accezione spregiativa: “cammini come uno spastico”, ”ragioni come un mongoloide”, convinti di essere immuni, chissà perché, da qualsiasi forma di disabilità! Comunque sia, l’immagine della disabilità ne esce connotata negativamente dando fiato a stereotipi e pregiudizi micidiali il cui risultato finale è lo sminuimento del valore della persona stessa, ridotta alla sua condizione esteriore, fisica o mentale che sia!
Perché diciamocela proprio tutta, le buone intenzioni sottintese a certe frasi usate, hanno sì un valore linguistico e semantico proprio di chi le usa, ma possono anche essere espresse in modo scorretto, sbagliato, esagerato, offensivo e perfino stereotipato: cambiare il modo di definire o chiamare una persona cambierà quindi anche il modo di percepirla e relazionarsi con essa! La definizione delle cose “conta” perché mostra il nostro livello di cultura, il nostro grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso gli altri e i più deboli in particolare: quel che c’è di vero al di là dell’apparenza di superficie!
Cerchiamo pertanto di usarle nel modo più appropriato! Il primo passo verso un uso corretto delle parole è saper bene quali usare e quali no! E, se questo è vero per ogni parola e per ogni persona, lo è ancor più quando si parla appunto di soggetti deboli: se definisci qualcuno non in maniera rispettosa, anche l’opinione e la percezione di costui sarà deformata e nella mente si formerà un’idea distorta e diversa di quella persona! Pertanto, tatuiamoci nel cervello termini corretti: il rispetto verso gli altri è indispensabile per una comunità di uguali in cui nessuno sia servo o padrone di qualcun altro!
Ma i termini giusti? Semplice: in generale, si definisce una persona con difficoltà fisiche e psichiche “persona con disabilità”. Tutto qui! L’attenzione viene focalizzata sulla persona, non sulla sua capacità funzionale, sulla qualità del suo pensiero, sull’abilità nel fare qualcosa, sulla sua indispensabilità. La sua condizione specifica, se necessaria, viene dopo e ne completa la qualifica: prima di tutto viene la persona, il “chi è”, in qualità di essere umano e come cittadino di questa Repubblica!
Poi, se è indispensabile “qualificare” quella persona per indicarne una limitazione nella capacità di essere o fare qualcosa, allora si indicherà il tipo di disabilità: paraplegico, tetraplegico, cieco, amputato, non vedente, non udente, spastico… Questi ultimi, beninteso, utilizzati non come sostantivi che lo definiscono per il suo “esserci”, bensì aggettivi qualificativi della sua condizione! Queste parole, naturalmente, non sono ghiribizzi mentali né punti di vista dello scrivente e neppure una fissazione ossessiva del suo modo di voler esser percepito e definito dagli altri: è soltanto una delle indicazioni fondamentali adottate dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità” (New York, 2006, ratificata l’anno dopo dallo Stato italiano e quindi legge!).
Quindi dimentichiamoci con consapevole assennatezza gli strani per non dire strampalati, modi di intendere la disabilità: diversamente abile, disabile, handicappato o, addolcito, portatore di handicap, invalido, etc… Oggi, nel 2019, si parla esclusivamente di “persone con disabilità”! Esempio: il signor Rossi è soltanto il signor Rossi, padre, ragioniere, professore, impiegato, medico, autista o chissà che altro, fin quando non divenga necessario riferirsi alla sua condizione fisica o mentale! Sarà allora che si preciserà “il signor Rossi”, con disabilità nel camminare, nel vedere, nel percepire, nell’esprimersi, nel pensare… Per rendere ancor più completo l’esempio, immaginiamo stavolta un signor Bianchi, geometra, che a cinquant’anni sia stato colpito da un ictus o da una malattia degenerativa o ancora da una paralisi traumatica invalidante: egli resterà sempre il “geometra Bianchi” che era una certa persona e faceva un certo lavoro e che ora ha una paralisi!! Non diventerà un handicappato che fa (o faceva) il geometra! La sua condizione umana e personale resterà sempre quella di “geometra Bianchi” e non certo quella sopravvenuta, nel tempo, di paralizzato!
Ben se n’erano resi conto due autori pur a vent’anni uno dall’altro. Il primo, Franco Bomprezzi, caporedattore di vari giornali a tiratura nazionale, aveva intuito già negli anni ’90 la necessità e l’importanza di definire correttamente persone e situazioni. Affetto fin da piccolo da “osteogenesi imperfetta”, malattia genetica caratterizzata dalla fragilità delle ossa che lo avrebbe costretto a muoversi su una sedia a rotelle, non se ne lasciò condizionare più di tanto nell’attività professionale! Egli rimase sempre e soltanto “il caporedattore Franco Bomprezzi”: l’osteogenesi era esclusivamente affar suo! Era ben consapevole, di fronte all’incertezza sui termini da usare, di come stampa, radio e tv potessero condizionare il pensiero e, a loro volta, il linguaggio e l’azione. Preparò ed introdusse nella redazione di vari giornali un decalogo della “Buona informazione sulla disabilità”, in cui segnalava ai redattori le parole da utilizzare parlando di persone con qualche disabilità. Pur se ammetterà, molti anni dopo quel ‘98, di dover constatare come i dieci punti sembrino ancora lontani da una corretta applicazione, ecco i primi quattro:
1) Considerare nell’informazione la persona con disabilità come fine e non come mezzo.
2) Considerare la disabilità come una situazione “normale” che può capitare a tutti nel corso dell’esistenza.
3) Rispettare la “diversità” di ogni persona con disabilità: non esistono regole standard né situazioni identiche.
4) Scrivere di disabilità solo dopo avere verificato le notizie presso fonti documentate e imparziali.
Il secondo, Tullio De Mauro, scrisse nel 2016 un libretto su “Le parole per ferire”, con una serie di termini d’odio adoperati per offendere l’altro! La situazione deve essere parsa estremamente preoccupante anche al nostro Governo se, tramite una recentissima commissione sull’intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, la cosiddetta “Commissione Segre” ha deciso di intervenire con fermezza!
In ogni caso e senza intoppi imprevedibili, si sta diffondendo sempre più una più marcata consapevolezza della disabilità e un autentico rispetto nei confronti dei disabili: alla sensibilità di ognuno di noi il compito di trovare le parole più adatte!
Ugo Bosetti