Dopo la prima dell’articolo “The Secrets of Autism”, dato alle stampe dalla prestigiosa rivista americana “Time” e ripreso da noi nel numero di ottobre, pubblichiamo ora la seconda. Il testo è stato tradotto per Autismo Italia e per noi da Tiziano Gabrielli, medico ed esperto conoscitore di questa malattia. L’originale è di J. Madeleine Nash.
L’autismo è stato descritto nel 1943 da Leo Kanner, uno psichiatra della Johns Hopkins e successivamente nel 1944, dal pediatra Hans Asperger. Kanner applicò tale termine ai bambini che erano socialmente ritirati, dipendenti da routine e in difficoltà ad acquisire un linguaggio parlato sebbene in possesso di competenze intellettuali che evitavano una diagnosi di ritardo mentale. Asperger applicò il termine a bambini maldestri socialmente, che sviluppavano ossessioni bizzarre e persino con alta verbosità e aspetto piuttosto brillante. C’era una sorprendente tendenza, notò Asperger, tra i disordini che si evidenziavano nelle famiglie, qualcosa passava direttamente tra padre e figlio. Che i geni potessero avere un ruolo centrale nell’autismo venne ribadito anche nei lavori di Kanner. Ma la ricerca non si adoperò in tal senso. Le intuizioni di Asperger languirono nel disastro postbellico e le idee di Kanner furono travolte dall’affermarsi delle schiere di Freud.
I bambini non erano nati autistici, insistevano gli esperti, ma lo diventavano perché i loro genitori, specie la madre, erano freddi e non incapaci di accudirlo.
Nel 1981, comunque, la psichiatra britannica Dr.ssa Lorna Wing pubblicò un importante documento che suscitò nuovo interesse attorno al lavoro di Asperger. Il disordine che Asperger aveva identificato, osservò la Wing, sembra per molti versi, essere una variante dell’autismo descritto d Kanner, questo perché gli elementi in comune sembravano avere lo stesso peso delle differenze.
Il risultato è che ora i ricercatori credono che questi due disturbi siano le due facce di un solo disordine, complesso e variabile, che in sostanza ha la sua origine nel caleidoscopio dei tratti codificati del genoma. I ricercatori hanno anche riconosciuto che le forme severe di autismo non sono sempre accompagnate dagli sperati compensi di tipo intellettuale e sono invece caratterizzate più facilmente da deficit e ritardo mentale.
Forse il più provocatorio riscontro che gli scienziati hanno portato è stato quello di evidenziare una sorta di “familiarità” delle componenti autistiche, più che di autismo vero e proprio. Al di là del fatto che le persone con autismo profondo rarissimamente hanno bambini, la ricerca ha evidenziato che sono presenti tratti di autismo anche nei familiari più vicini al soggetto colpito. Una sorella potrebbe risultare impegnata in ripetitivi ed eccentrici comportamenti o essere eccessivamente schiva; un fratello potrebbe aver difficoltà con il linguaggio o risultare inadeguato socialmente, in grado rilevante. Per simili considerazioni, se uno gemello monozigote (identico) è affetto da autismo, c’è il 60% di probabilità che anche l’altro ne sia affetto e più del 75% che il gemello senza autismo possa esibire uno o più tratti del disturbo.
Quanti geni possono contribuire alla suscettibilità dell’autismo.
Attualmente si stima possano essere da molto pochi (tre), sino a molti (più di 20). Mano a mano che si intensifica l’esame, come indicato dagli articoli pubblicati da ‘Molecular Psychiatry’ (Psichiatria Molecolare), questi sarebbero geni che regolano l’azione di tre potenti neurotrasmettitori: il glutammato, che è intimamente coinvolto nell’apprendimento e nella memoria, la serotonina e l’acido gamma-amminobutirrico (gaba), che sono implicati nei comportamenti ossessivo-compulsivi, nell’ansietà e nella depressione.
Questi geni assai difficilmente esauriscono la lista delle possibilità. Sotto sospetto sono virtualmente tutti i geni che controllano lo sviluppo del cervello e forse del colesterolo e del sistema funzionale immunitario. Chrstopher Stodgell, un tecnico dello sviluppo, all’università di Rochester, New York, osserva che c’è nel cervello un processo che permette l’assemblaggio e la percezione gradevole di un pezzo musicale complesso e decine di migliaia di geni che costituiscono l’orchestra che lo esegue. Se questi geni fanno quello che si suppone debbano fare, dice Stodgell, “ allora voi percepirete il Concerto per Clarinetto di Mozart. Altrimenti avrete un rumore cacofonico”.
Una diversa teoria della mente
I soggetti autistici spesso soffrono di un repertorio confuso di problematiche – disturbi di tipo sensoriale, allergie ai cibi, problemi gastrointestinali, depressione, ossessività compulsiva, epilessia subclinica, deficit di attenzione, disordini di iperattività. – Ma ci sono ricercatori che credono ad un difetto centrale, che attraversa le difficoltà possibili dello spettro autistico, e che riguarda lo sviluppo di una teoria “diversa” della mente. Ciò origina dal fatto che, secondo valenze psicologiche, la maggior parte dei bambini, attorno all’età di quattro anni, comprende che le altre persone hanno i loro pensieri, le loro passioni, desideri e che non sono dunque l’immagine allo specchio di loro stessi. Così come lo vede lo psicologo dei bambini dell’università di Washinton, Andrew Meltzoff, lo stadio di sviluppo, conosciuto come il “terribile doppio”, si ha perché i bambini – quelli normali – giungono all’ipotesi che i loro genitori abbiano menti indipendenti e poi, così come scienziati, li sottopongono a test di verifica. I bambini con spettro autistico, hanno “menti cieche”, sembrano credere che ciò che accade in tutte menti siano gli stessi pensieri che appaiono nelle loro, in quel preciso momento, e ciò che loro provano credono sia ciò che ognuno prova.
La nozione che gli altri – genitori, operatori, insegnanti – possano decidere per pensieri differenti, che possano albergare segreti o pensieri non univoci, non passa per la loro mente. “ A Tommy, serve un tempo lunghissimo per dire una bugia.” Replica Pam Barrett, e quando alla fine la dice, lei intimamente lo conforta.
Meltzoff crede che questa mancanza possa ricalcare il nucleo della difficoltà incontrate, da chi soffre di autismo, di imitare la vita degli adulti. Se un adulto si siede con un bimbo di diciotto mesi e si impegna in una serie di comportamenti interessanti – battere su due cubetti posti sul pavimento, o forse, fare delle facce strane – il bimbo solitamente lo imita, facendo lo stesso. I piccoli bimbi con autismo, no; come hanno dimostrato Meltzoff e la sua collega Geraldine Dawson in una serie di esperimenti in sala giochi. La conseguenza di questo fallimento può essere seria. In età precoce, l’imitazione è uno degli strumenti più importanti per l’apprendimento. È attraverso l’imitazione che i bambini imparano a dire le loro prime parole ed apprendono il linguaggio non verbale come la postura del corpo e le espressioni facciali. In questo modo, dice Meltzoff, i bambini imparano che tenere le spalle basse significa tristezza o stanchezza fisica e che strizzare gli occhi può significare felicità oppure scherzo.
Per i bambini autistici – persino per quelli ad alta funzionalità – l’abilità nel leggere la condizione interiore di altre persone viene solo dopo un lungo cammino, e persino dopo questo, la maggior parte di loro fallisce nel comprendere i sottili segnali che inconsciamente qualsiasi individuo lascia trapelare. “ Non avevo idea di cosa comunicassero le altre persone attraverso alcuni piccoli movimenti degli occhi” dice la dottoressa Temple Gradin, autistica, “fino a che non lo lessi in un giornale cinque anni or sono”.
Allo stesso tempo, è scorretto dire che gli autistici sono freddi ed indifferenti verso chi sta loro intorno o, come comunemente si crede, non possiedono quell’alto livello relazionale conosciuto come “empatia”.
Lo scorso dicembre, Pam Barrett si sentì fortemente emozionata e scoppiò in lacrime, c’era Danny, il più grave dei suoi figli, che correndo verso di lei e girando alle sue spalle la attirò nelle sue braccia.
Un’altra convinzione da sfatare relativamente ai soggetti con autismo, dice Karen Pierce, una neuroscienziata dell’università di San Diego, California, è quella che essi non individuino e non memorizzino come ‘speciali’ le facce di coloro che più li amano – che nel linguaggio dei maggior esperti di cervello avanzato – equivale a dire che loro vedono il viso della loro madre tale e quale a quello dipinto su una tazza di carta. Quasi l’opposto a quanto dice Pierce, che sulla base di studi per neuroimmagini, ha appunto confutato le dette affermazioni. Comunque, lei ha riferito nella conferenza tenutasi a San Diego, lo scorso novembre, che il centro delle attività nella mente degli autistici, sembra risiedere all’infuori del giro fusiforme, un area del cervello che in persone normali è specializzata nella ricognizione dei volti umani. In studi di neuroimmagini, Pierce osservò, infatti che il giro fusiforme non reagisce negli autistici quando vengono mostrate loro immagini fotografiche di sconosciuti mentre si accende come una pira romana, se messi di fronte a fotografie dei genitori. In più, questa attività esplosiva non si limita al giro fusiforme ma, come nei normali soggetti, si estende in aree del cervello che rispodono al carico emotivo degli eventi. A Pierce questo suggerì che come i bimbi, i soggetti autistici, sono in grado di realizzare legami emozionali forti, cosicchè il loro tardivo isolamento sociale sembra essere la conseguenza di una disorganizzazione cerebrale che peggiorerebbe mano a mano che lo sviluppo procede.
In questo modo, studio dopo studio, sembra sempre più evidente che il modo di analizzare le informazioni dei soggetti autistici è per molti versi diverso da quello dei soggetti normali.
John Sweeney, psicologo dell’università dell’Illinois, per esempio, ha trovato che l’attività nella corteccia prefrontale e parietale è notevolmente sotto la norma negli adulti autistici a cui è richiesto di eseguire un semplice esercizio che coinvolga la memoria spaziale. Queste aree del cervello, egli fa notare, sono essenziali per pianificare la soluzione dei problemi ed è inoltre necessario, per ottenere le modificazioni dinamiche delle mappe spaziali da utilizzare, nascondere quote di queste in memoria-lavoro. Come dice Sweeney, la ridotta capacità di soluzione dei problemi, costruiti per testare i suoi pazienti – posizionare dei tappi su dei siti appositi alternativamente illuminati – suggerisce una loro difficoltà nel riconoscere ciò che viene nascosto o di accedervi in tempo reale. Al collaboratore di Sweeney, la neurologa Dr. Nancy Minshew dell’università di Pittsburgh, le immagini ottenute da Sweeney dai cervelli di autistici, durante il lavoro, sembrano particolarmente significative. Suggeriscono infatti una connessione essenziale tra aree chiave del cervello dove