Un’occasione per vedere riuniti: agricoltori dalla Svizzera, dall’Austria e dal sud, centro e nord Italia, i piccoli produttori locali e le associazioni di promozione culturale ed ambientale nelle loro declinazioni tradizionali e sostenibili. Me ne aveva parlato un mio amico che recentemente ha intrapreso un percorso teso al recupero di terra coltivabile, alla valorizzazione di antichi saperi dell’agricoltura tradizionale e alla valorizzazione di piante autoctone.
Ammetto che ho sempre avuto l’orto a casa mia, prima in Toscana poi in Trentino, una realtà che inizialmente non mi prendeva e che invece ora ringrazio più che mai di aver conosciuto. Nella mia famiglia, quella dell’orto, è un esperienza cominciata più per passione che per necessità, ma che nel tempo è sicuramente diventata un’attività parallela che comporta un sacrificio oltre a quello lavorativo. Avere le proprie patate per cinque, sei mesi l’anno, raccogliere un cesto di insalata a pochi metri da casa, trovare pronti finocchi, pomodori, zucchine e il profumato basilico è qualcosa di magnifico.
Si, lo sarebbe ancora di più se i semi usati fossero liberi da brevetti, proprietà e speculazioni finanziarie. Non esiste nulla di più naturale che dedicare parte del proprio raccolto alle sementi che potranno essere usate l’anno seguente o scambiate con altre varietà.
L’evento denominato “Chiamata A Raccolto” e organizzato dal gruppo “Coltivare Condividendo”, vuole richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, sull’importanza dell’agricoltura biologica e tradizionale, attraverso buone pratiche messe a punto negli anni. Occasioni di ritrovo come questa rappresentano l’opportunità di prendere contatto diretto con associazioni, cooperative e agricoltori locali che del libero scambio di saperi e sementi, hanno fatto la loro missione per vivere in maniera sostenibile e sana.
Partiamo presto la mattina, la macchina con cui facciamo la trasferta è un po’ sgangherata, ma fa il suo dovere, con noi viaggia anche una ragazza che m racconta essersi occupata negli ultimi anni di agricoltura sostenibile, della filosofia “ridiamo braccia all’agricoltura” e della diffusione di antiche tecniche rilette in chiave contemporanea. Infatti lei, insieme ad un’altra sua collega ad amici e volontari, sono almeno due anni che portano avanti l’iniziativa “Farmazione”. Un vero e proprio orto comune che funge da laboratorio didattico e come spazio produttivo per tutta i partecipanti e la collettività.
Le chiaccere in viaggio fanno macinare chilometri senza rendersene conto arriviamo all’ingresso del bocciodromo di Feltre, dove è allestito l’evento. Mi accorgo di essere di fronte a un mondo completamente inaspettato, una cittadina medioevale che in una domenica soleggiata d’autunno riesce ad accogliere tante persone, dai semplici curiosi, ai produttori, ai piccoli agricoltori e gli esponenti dell’associazionismo transalpino. Il grande salone è ancora in allestimento, ma iniziano a comparire i vari baracchini. Il primo, cattura la nostra attenzione: è dedicato all’orto sinergico, e viene illustrata la corretta disposizione di verdure, piante aromatiche, insetti benefici, l’utilizzo di concimi e fertilizzanti naturali come la paglia, la cenere e quant’altro.
Poco più in là compare un lungo tavolo costellato da almeno un centinaio di varietà di patate da tutto il mondo. Questo tubero resiste ad alte quote, alcune varietà hanno colori più svariati, dal banco al violaceo e dalle forme più strane. È un piccolo museo itinerante il cui artefice è un’associazione agro culturale ligure che si occupa di diffondere la conoscenza su questo tubero straordinario, che nella storia è divenuto elemento base nella dieta di molte popolazioni. Lì ci viene spiegato che la storia della patata e delle sue varietà inizia negli Stati Uniti, da lì essa segue le principali rotte commerciali e raggiunge tutto il mondo. Nei secoli essa si è incrociata naturalmente o con l’intervento inconsapevole dell’uomo, fino a quando qualcuno decise di classificarla, etichettarla e brevettarne le qualità. In Europa come in America vennero selezionate quelle più produttive e a basso costo da dedicare ai grandi consumi, questo fece si che le varietà minori vennero dimenticate in sperdute valli montane, in piccole riserve agricole nella pianura o dove si continuava a coltivarle e a incrociarle naturalmente. Ma si sa che al progresso non si possono porre limiti e per questo nascono brevetti su qualità resistenti a determinati parassiti o condizioni climatiche, che necessitavano di ricerche in laboratorio, di investimenti e ovviamente di un ritorno economico. Dall’esempio della patata, che rappresenta in un’unica soluzione sia il frutto che il seme della pianta, si può estendere il discorso a tutte le sementi conosciute: dal kamut, all’orzo, dal peperoncino al pomodoro, per non parlare delle insalate e di tutta la frutta, che oggi rischiano l’omologazione e la standardizzazione con il pretesto di una maggior produttività e resistenza.
L’importanza della condivisione, dell’intreccio naturale delle specie e della preservazione di qualità locali è ora maggiormente sentito vista una tendenza europea e globale alla estrema regolamentazione di sementi e piante.
È in Commissione Europea dal 13 luglio scorso una proposta di legge sul materiale riproduttivo vegetale. Una legge che si propone di controllare totalmente semi e piante: “tutti i semi, tutte le piantine, piante o talee”. Potranno essere commerciati solo semi e piante “approvate” da un ufficio preposto, “certificate” e inserite in un elenco ufficiale; potranno essere coltivati per il mercato solo vegetali prodotti con i suddetti semi e piante.
Sarà l’ufficio apposito della Commissione Europea a decidere quali semi e quali piante. Il vaglio sarà disposto da un’ Agenzia ad hoc, che predisporrà i controlli su agricoltori e giardinieri. I criteri di validità sono: “distinguibilità, omogeneità, stabilità”. Proprio quelle delle piante industriali, meglio se brevettate. Sì, perché le multinazionali stanno brevettando quei pomodori che noi riproduciamo per talea, quelle patate di cui conserviamo e ripiantiamo il seme un anno dopo l’altro. Dunque è importante la “stabilità”: se il seme brevettato della multinazionale producesse una pianta diversa da quella originaria (per esempio, le zucche si ibridano facilmente con lo spontaneo aiuto di api e insetti), come potrebbe provare che è di sua proprietà e che non ho il diritto di riseminarla? Ma la legge ha pensato a tutto: distinguibilità, omogeneità, stabilità. Tutte caratteristiche atte a far pagare i “diritti d’autore” e a rendere illegali le piante prodotte direttamente dai contadini.
Ci hanno provato creando varietà in laboratorio, giocando con i geni e realizzando i cosiddetti Organismi Geneticamente Modificati (OGM) ma per ora non riescono a vincere la resistenze e la diffidenza, e hanno quindi ripiegato sugli organismi non geneticamente modificati, appropriandosene, attraverso i brevetti. Chi si aspettava, infatti, che per piantare un boschetto di pioppi e ontani, per vendere al mercato del paese qualche cassetta di ciliegie o di noci si dovesse avere il “certificato” di idoneità per queste specie?
Per intenderci, chiunque abbia un vivaio e venda piante, dal tagete al sedano, dalle cipolle ai cipressi, dai pomodori al rosmarino, sarà controllato in maniera ferrea: potrà coltivare e seminare solo piante “approvate”, catalogate e certificate; dovrà etichettarle a norma di legge e la legge qui insiste molto. Dovrà imballarle a norma di legge; dovrà tenere registri e dovrà rendere continuamente conto di quello che produce e che vende.
La conseguenza evidente, voluta e inevitabile sarà che nessun vivaista si azzarderà più a produrre le proprie piante, ognuno si limiterà a comperare e rivendere quelle fornite dalle compagnie, con etichetta e imballaggio sicuramente regolare, dato che li hanno decisi e imposti loro.
Quel che riguarda le piantine vale anche per i semi, vale per i prodotti che poi venderà il contadino: sarà sempre più difficile e costoso anche solo attenersi alla legge. Ed ecco il grande risultato: fine della piccola e media azienda agricola. Come è già successo per l’allevamento, l’agricoltore diventa un operaio dell’industria agroalimentare, magari sul suo stesso terreno, di cui detiene formalmente la proprietà, tocca a lui coprire tutti i costi e, se il prodotto non si vende, pagarne il prezzo a proprie spese.