Presenti al Trentino Bookfestival 2014 a Caldonazzo, la famiglia Cucchi con il padre Giovanni e la madre Rita, accompagnati dal Giornalista e scrittore Duccio Facchini, autore del libro “Mi cercarono l’anima: storia di Stefano Cucchi”. Un incontro per la presentazione del libro-inchiesta uscito nell’ottobre 2013 che ha visto il minuzioso racconto di una madre vittima due volte dello Stato, prima per la morte del figlio e poi per la mancanza di una verità, che rimane tuttora celata.
«Stefano era un ragazzo attivo, solare, lavorava col padre e si dedicava alla sua grande passione, la box. Era un venerdì sera, e come ogni giorno dopo la palestra veniva a casa da noi. Abbiamo cenato insieme, era allegro, stava benissimo. Dopo cena, verso le dieci e mezza è uscito con la sua cagnolina, per incontrare un amico e fare una passeggiata. Verso l’una, l’una e un quarto di notte, io ero ancora in piedi e ho sentito suonare al citofono, era Stefano: “Mamma apri…”. Gli ho aperto e lì per lì ero un poco meravigliata, perché di solito lui ha sempre le chiavi con sé. Comunque ho aperto la porta e ho visto Stefano con altri tre ragazzi. Pensavo fossero suoi amici… Invece subito loro hanno detto: “Signora, Carabinieri.”
Insieme ad altri due Carabinieri, questa volta in divisa, sono entrati, si sono diretti subito verso la stanza di Stefano, dicendo che era una perquisizione. Mi è crollato il mondo addosso. Una cosa mai capitata. Ho svegliato immediatamente mio marito e i tre carabinieri in borghese sono venuti con noi per spiegarci la situazione, mentre gli altri due in divisa perquisivano la stanza.
Ci hanno riferito che nostro figlio era stato fermato con 20g di erba, 2g di cocaina e al tempo ci dissero anche con 2 pasticche di ecstasy, rivelatosi poi non vero. Erano pastiglie di Rivotril, che Stefano portava sempre con sé come salva vita, poiché aveva sofferto fino a qualche anno prima di crisi epilettiche e attacchi di panico. Durante la perquisizione non hanno trovato assolutamente niente, e quando hanno finito, noi abbiamo messo a disposizione tutta casa, potevano guardare dove volevano. Addirittura mio marito si è offerto di accompagnarli nello studio dove lavorava insieme a Stefano.
Hanno detto che non era assolutamente necessario, che la situazione non era per nulla grave e che nell’indomani sarebbe stato rilasciato e riportato a casa. Era una cosa da niente.
Quindi l’hanno portarlo via, in manette. Mentre andavano via abbiamo chiesto se potevamo telefonare al nostro avvocato, ma ci è stato risposto che non serviva poiché lo stesso avvocato, amico di famiglia, era già stato contattato direttamente da Stefano.
La mattina seguente è stato fissato il processo per direttissima. Ci va mio marito. Quando Stefano entra nell’aula, è già tutto livido in faccia, nero sotto gli occhi e la prima cosa grave che succede quella mattina è che non gli è stato chiamato l’avvocato da lui indicato. Fatto strano, al suo posto gli è stato affidato un avvocato d’ufficio. L’avvocato indicato da Stefano, lo conosceva da quando era nato ed è sempre stato un ottimo amico di famiglia. Quando Stefano ha chiesto spiegazioni del perché del mancato affidamento, di risposta le autorità si sono messe a ridere e lo hanno preso in giro. Hanno detto che non era vero che lui aveva nominato un avvocato. La sera prima gli agenti dell’arma ci avevano detto esattamente il contrario.
Questa incongruenza è confermata dal fatto che il nome dell’avvocato nominato da Stefano risulta da tutti i verbali dei carabinieri; quindi lui lo aveva certamente nominato, ma non gli è stato chiamato. Altra grave incongruenza risulta dal fatto che Stefano va a giudizio con un foglio che giunge dinanzi al giudice indicando le generalità dell’imputato come: Stefano Cucchi, 23 anni, Albanese, in Italia senza fissa dimora. Questo è ciò che il giudice ha davanti, non alza nemmeno lo sguardo su Stefano. Perché, a quel punto si sarebbe accorto che lui stava già male, che non ce la faceva neanche a testimoniare, e questa suo stato risulta anche dalle registrazioni della deposizione, poi andata in onda; si sente Stefano che fatica a parlare.
Nonostante questo, non gli vengono dati gli arresti domiciliari, dato che la residenza come indicato dalle carte, non ce l’aveva.
Riceve quindi la convalida del fermo e lo riportano via. Quella è stata l’ultima volta che mio marito vede Stefano vivo. Io lo avevo visto la sera prima.
Il giorno successivo, sabato, abbiamo preparato una borsa con della biancheria e ci siamo recati in Tribunale, per chiedere dove fosse stato trasferito, se a Regina Coeli o Rebibbia. Ci era stato detto che era a Regina Coeli.
Siamo corsi lì, per consegnare il borsone, ma stranamente quel giorno non lo potevano accettare. Ce lo hanno ridato indietro. La sera stessa, alle nove, arriva a casa un Carabiniere e ci riferisce che Stefano era stato ricoverato con urgenza al Sandro Pertini. Chiediamo a quel punto se possiamo andare a portargli il borsone e vederlo. Il carabiniere ci dà risposta affermativa, dicendo che lo troveremo piantonato in ospedale. Corriamo dunque all’ospedale, ignari del fatto che esistesse un padiglione speciale, un presidio ospedaliero del carcere. Al che, al pronto soccorso il nome di Stefano non risultava. Insistiamo con il carabiniere che era venuto a casa nostra, ma niente da fare. Finché una guardia giurata intervenne dicendo che se il ragazzo proveniva da Regina Coeli, certamente era stato ricoverato nel padiglione speciale, l’ospedale del carcere. Ci siamo recati subito là, abbiamo citofonato e ci siamo presentati come i genitori di Stefano Cucchi. Ci è stato risposto che sì era lì, ma non potevano dirci niente, né noi potevamo vederlo. Ci è stato risposto che quello era un carcere e non una clinica privata.
“Tornate lunedì potrete e parlare con i medici dalle 10- 12!”. Quindi abbiamo trascorso una domenica di angoscia, con un figlio ricoverato d’urgenza senza sapere cosa avesse. Noi lunedì a mezzogiorno in punto ci siamo presentati all’ospedale, abbiamo citofonato e dopo una decina di minuti, ci hanno fatto entrare ritirandoci i documenti. Dopo neanche cinque minuti ci raggiunge una sovrintendente, ci ridà i documenti e ci comunica che non potevamo parlare con i medici, perché a loro non era arrivato il permesso da Regina Coeli per poter parlare con noi.
Insistiamo per sapere almeno come stava, cosa fosse successo, ma niente, non ci potevano dire assolutamente niente. Soltanto i medici possono parlare. Al che ho detto “scusi, lei è una donna, forse anche madre, capisca la situazione, io mio figlio non posso vederlo…lei sì!” mi guarda e mi dice:” Suo figlio è tranquillo.”
Chiedo nuovamente di poter lasciare il borsone con i cambi e mi dice assolutamente di no. Insisto per almeno due cambi intimi, figuriamoci, il minimo per un ragazzo che faceva anche tre docce al giorno a casa. Per di più uscito e arrestato con i vestiti che aveva indosso.
Mi viene risposto che Stefano aveva di tutto e di più, non gli serviva assolutamente niente. Dopo ho capito perché: quei due cambi intimi che ho lasciato, me li hanno riconsegnati in una busta e mai utilizzati, come gli avevo lasciati io. Stefano non è stato mai cambiato, sul tavolo dell’obitorio giaceva con gli stessi abiti della sera in cui fu arrestato, addirittura ancora con la felpa indosso.
Niente. Mai guardato, mai lavato, mai cambiato da nessuno! Ci dicono di tornare il giorno dopo e che il permesso sarebbe sicuramente arrivato.
Martedì torniamo, e questa volta non ci fanno neanche entrare. Perché ci viene detto al citofono che siamo noi che dobbiamo andare a chiedere il permesso in Tribunale e portarlo all’ospedale. Ormai gli uffici erano chiusi e abbiamo rimandato a mercoledì mattina. Mio marito si è recato a ritirare il permesso, che andava convalidato a Regina Coeli. Gli orari però sono i medesimi e le distanze a Roma sono enormi. Se un giorno vai da una parte non puoi contemporaneamente essere dall’altra.
Quindi giovedì mattina con quel permesso mio marito è andato a Regina Coeli per farselo convalidare, mentre io aspettavo a casa con la mia nipotina. A mezzo giorno, citofona un carabiniere e mi dice: “Signora, guardi c’è una macchina giù che l’aspetta, lei mi dovrebbe seguire”. Io stupita chiesi per che cosa? -”No signora non si preoccupi, dobbiamo farle solo delle domande.”
Ma io ero sola casa con la bambina, e non era possibile. Propongo di aspettare che almeno mio marito tornasse dal Carcere, ma mi interruppe e fece una telefonata. Mi disse che il comandante aveva acconsentito a svolgere le domande in casa. Il carabiniere a quel punto se ne andò per tornare dopo mezz’ora con un collega. Mi disse di sedermi, il collega prese la bambina dalle mie braccia e la mise nel box. Presi quindi gli occhiali, mi sedetti e mi preparai a rispondere alle domande. Ma niente. L’’ufficiale si limitava a completare il foglio con i dati di Stefano. Alla fine piegandolo mi disse: “Signora purtroppo devo darle una brutta notizia, suo figlio è deceduto.”. Allora non ho capito più niente, non è possibile che un ragazzo sano e libero, pieno di vita fino a sei giorni fa muoia così!
Quello era il foglio in cui dovevamo nominare un medico legale per l’autopsia di Stefano. Entro mezzo giorno e mezzo, era quasi l’una.
Così,ho scoperto della morte di mio figlio, da sola, senza preavviso, con quel foglio in mano.
Disperata, ho subito chiamato mio marito e mia figlia e insieme siamo corsi al Sandro Pertini. Abbiamo citofonato e si è presentato un poliziotto. Proprio in quel momento un medico, tra quelli poi condannati, entrava di corsa con un foglio in mano, e alla nostra domanda su cosa fosse successo, ci ha risposto: “ Signora purtroppo questa mattina verso le 6 quando sono passati per il giro dei medicinali, hanno trovato suo figlio morto. Qui è tutto regolare, qui ci sono i fogli!!.”
Mi rivolgo quindi ad un medico donna e le chiedo come può un ragazzo sano morire così in soli 6 giorni? Mi rispose che purtroppo mio figlio era sempre coperto da un lenzuolo. Ed io le risposi: “Ma un medico, può o deve sollevare quel lenzuolo e curare il paziente?!”. Dopo ci siamo resi conto del perché. Ci hanno detto che Stefano era nel reparto di medicina legale, non ce lo volevano far vedere, “Assolutamente no dopo l’autopsia!”; ci risposero.
A quel punto non ne potevamo più, abbiamo impuntato i piedi e cominciato a gridare: “ Se non ci fate vedere nostro figlio adesso, noi da qui non ci muoviamo!”. -”Ci vuole il permesso del magistrato”-,ci è stato risposto. Ma non ci interessava. Che venisse direttamente lì il magistrato! Noi volevamo vedere nostro figlio!
Al che, un medico ufficiale ha telefonato al magistrato, che ha dato il permesso. Abbiamo comunque dovuto aspettare mezz’ora che sistemassero Stefano.
Quando siamo entrati, vi giuro, come madre, per una frazione di secondo ho stentato a riconoscerlo. Era massacrato, solo il volto non era ricoperto dal lenzuolo. Giaceva in una teca di vetro fissa, con tutt’intorno i poliziotti che non riuscivano a nascondere la paura di chissà che cosa noi potessimo fare. Stefano era lì con un occhio socchiuso, l’altro fuori, la mascella rotta. Nero in viso, non era più lui.
Quando mi sono rivolta ai poliziotti, ho detto loro: “ Un ragazzo ridotto così per venti grammi di erba? Ma ai grandi che cosa fate? Niente! Perché dei grandi voi avete paura!!”.
Più d’uno ha abbassato la testa, e uno di loro mi ricorderò sempre, camminava nervoso intorno a Stefano e scuoteva il capo.
Io dico che non è possibile. Perché, vedete, in mezzo a loro la stragrande maggioranza di persone sono brave, è gente che rischia la vita tutti i giorni, purtroppo là in mezzo ci sono non solo alcune mele marce, ma una manciata di mele marce! Di cittadini italiani, assunti e pagati dallo Stato, che non sanno fare il loro mestiere. Gente che per gravissimi problemi, interpersonali, personali, non sono degni di indossare una divisa, loro andrebbero tirati fuori, come succede a tanti altri cittadini che se sbagliano perdono il lavoro. Ma finché insistono per tenerli dentro anche dopo il terzo grado di giudizio, loro non perdono il posto, loro proseguono con tanto di divisa e questo non è giusto. Stefano non è stato trovato morto massacrato in qualsiasi parco di Roma dove nessuno ha visto e sentito niente. Stefano è morto massacrato dentro quattro mura dello Stato, quello stesso Stato che lo doveva proteggere. È entrato sano e libero con tanto di testimonianze, ne è uscito morto e massacrato, senza sapere il perché. Ora, lo Stato conosce la verità, ed io come madre la pretendo! Non ci fermeremo mai finché quella verità non verrà fuori, perché è là dentro. Loro la sanno e la vogliamo sapere anche noi!
Stefano ormai non ce lo ridarà più nessuno e noi andremo avanti per la giustizia di Stefano e per quella di tanti altri poveri ragazzi che non hanno voce e noi fino a quando avremo vita porteremo avanti questa battaglia perché le cose cambino, che non ci siano più morti ammazzati dallo Stato, come Stefano, Federico Aldrovandi, come Michele Ferrulli e come tanti, tanti altri.
È ora di dire basta! Se il cittadino sbaglia deve pagare, ma non con la pena di morte, in Italia non esiste e non possono farla tornare così. Mio figlio se avesse sbagliato avrebbe pagato, ma non con la vita.»