È ciò che succede a Leonard Shelby (interpretato da Guy Pearce) dopo un incidente che gli ha causato un raro disturbo della memoria, ovvero l’incapacità di ricordare tutto quello che è accaduto intorno a lui anche pochi istanti prima. Persone, avvenimenti, dialoghi, oggetti, tutto nella sua mente viene azzerato e ogni volta è come ricominciare daccapo. Solo una cosa è certa: il suo ultimo ricordo, quello che lo tormenta, è sua moglie violentata e uccisa da uno sconosciuto. Egli cerca di intervenire ma viene colpito alla testa; da quel momento “perderà” la sua memoria a breve termine e, di fatto, inizierà un nuovo capitolo della sua esistenza.
Ma questo suo ricordo costituisce, altresì, l’unico appiglio che lo spinge ancora a vivere, o meglio sopravvivere, con l’unico obiettivo di dare un volto all’assassino. Impresa quanto mai ardua anche in condizioni “normali”, ancor di più dovendo fare i conti con la sua patologia. Leonard decide che, prima di tutto, l’unico modo per restare in vita è imporsi un metodo, segnando dappertutto nomi, avvenimenti, dettagli e associandoli alle fotografie degli stessi fatte con la sua inseparabile Polaroid. Il suo stesso corpo diventa un libro, la sua pelle la pagina sulla quale tatuare i progressi delle sue indagini.
La pellicola si fa apprezzare sotto diversi aspetti: innanzitutto, il protagonista con la sua singolare quanto terribile afflizione che, inevitabilmente, “costringe” lo spettatore ad immedesimarsi e a “vivere” con esso le sequenze che il regista ha deciso di costruire.
Noi come agiremmo? Come si può combattere una situazione del genere? Leonard fa la sua scelta: fissa un obiettivo e vive, imponendosi un metodo, in funzione di esso. Ma anche tutto il pragmatismo possibile non è sufficiente e perfino le situazioni più banali, come una semplice conversazione, sembrano costituire un ostacolo insormontabile: iniziare un discorso e, dopo pochi secondi, dimenticarsi ciò che si è appena detto e sentito… incontrare una persona, sia essa un conoscente o un amico, significa sempre vederla per la prima volta, senza avere su di essa nessuna informazione se non una fotografia e una nota scritta frettolosamente. Proprio quest’ultimo aspetto rappresenta il dramma maggiore; Leonard, infatti, per quanto si possa sforzare, è inevitabilmente solo. Non esiste per lui un “volto familiare” e, per quante persone possa avere accanto a sé, non le può conoscere realmente. Di conseguenza non può fidarsi di nessuno.
Un ulteriore quanto interessante punto di vista trova riscontro nell’aspetto meramente tecnico di questa produzione e riguarda, in particolare, il montaggio. Basato su un racconto di Jonathan Nolan (“Memento Mori”) e diretto dal fratello Christopher Nolan, il film procede a ritroso: la prima scena ci mostra l’epilogo e, successivamente, ogni sequenza aggiungerà avvenimenti e situazioni che hanno avuto luogo in momenti antecedenti e che ne giustificheranno la successione temporale. Lo spettatore assiste ad una scena senza sapere, in quel momento, che cosa ha causato quella determinata situazione; tutto questo non costituisce solamente una scelta registica fine a se stessa, bensì appare come una decisione ben precisa. Fermandosi a riflettere, Nolan tenta di metterci nei panni di Leonard Shelby e consegna allo spettatore gli stessi indizi e le medesime informazioni in possesso del protagonista. Nel momento in cui si assiste ad una sequenza, chi guarda non è a conoscenza del perché quel dato avvenimento stia avendo luogo, proprio perché non sa cosa sia accaduto in precedenza. E questo è, con le dovute proporzioni, proprio ciò che prova Leonard. Egli si sveglia in una stanza, ma non ricorda come ci è arrivato e quale sia stata la successione di eventi che lo ha condotto fin lì. Questa tecnica permette al regista di trasmettere allo spettatore un’efficace e credibile sensazione di smarrimento e confusione, che lo accompagna costantemente durante tutta la visione, mantenendo alto il grado di coinvolgimento, nonché la curiosità di intuire i collegamenti tra le numerose sequenze ancor prima che essi vengano svelati. Chiaramente la scelta di produrre una pellicola così articolata può comportare dei rischi come, ad esempio, un elevato livello di concentrazione richiesto allo spettatore per l’intera durata e la necessità di cogliere perfettamente ogni piccolo dettaglio per poter comprendere appieno la sceneggiatura.
In conclusione, quello che abbiamo per le mani è, oggettivamente, un piccolo gioiello confezionato ad arte nel 2000 dai fratelli Jonathan e Christopher Nolan, sia dal punto di visto tecnico che delle sensazioni che la pellicola riesce a trasmettere, invitandoci per un istante a riflettere su una patologia tanto rara quanto drammatica; film poco pubblicizzato, che avrebbe meritato ben altro successo, limitato con molta probabilità dalla sua stessa natura che lo “relega” tra i film di “nicchia”. Sconsigliato a coloro che sono alla ricerca di qualcosa di “leggero” per passare una serata, mentre caldamente raccomandato a quelli che non si tirano indietro dinnanzi ad una visione “impegnativa”.