Morire di carcere

Data: 01/06/12

Rivista: giugno 2012

Il suicidio è la causa di morte più comune nelle prigioni italiane infatti un decesso su tre avviene a seguito di questo estremo gesto. I dati del Ministero della Giustizia mostrano che la popolazione carceraria ha un tasso di suicidi quasi dieci volte maggiore rispetto a chi le mura le vede solo da fuori e questo scarto è il più alto tra i paesi dell’ Unione Europea. Non è un caso che il nostro paese è purtroppo sul podio anche per quanto riguarda il sovraffollamento degli istituti di pena, infatti i due dati possono far sorgere collegamenti che sembrano spiegarsi da soli: quando un luogo diventa invivibile, assenza di spazio e condizioni di vita inaccettabili, possono facilmente portare il detenuto a vivere momenti di smarrimento ed estrema confusione.

Il disagio sociale è una realtà quotidiana che i detenuti devono affrontare con notevole forza d’animo. Molti però si lasciano andare e in preda alla disperazione e alla frustrazione dovuta ad un trattamento che non ha nulla di rieducativo, scelgono il suicidio e in molti casi riescono nel loro intento: un’evasione dal carcere che non conduce purtroppo alla libertà. Una situazione così opprimente e insostenibile non può che portare a galla tutte le debolezze umane e far compiere alle persone scelte disperate. Purtroppo però uscire dal carcere in un sacco nero non è la soluzione bensì uno dei tanti problemi.

L’ingresso in un istituto di pena rappresenta spesso un momento critico per il soggetto; questo effetto, definito dagli esperti come “trauma da ingresso”, può scatenare una serie di reazioni psicologiche fortemente negative e pericolose dovute all’impatto con una realtà profondamente diversa e temuta. In particolare il rischio di autolesionismo aumenta per coloro che non hanno avuto precedenti esperienze di detenzione e per coloro abituati ad un tenore di vita molto elevato, come per esempio i “colletti bianchi” che fanno il loro ingresso in carcere(raramente) in seguito a reati di stampo economico e finanziario.

In alcuni casi il recluso matura un senso di colpa per il crimine commesso, si pensi ai reati particolarmente infamanti come le violenze sui minori o gli omicidi all’interno delle mura domestiche; il suicidio diventa così un modo per espiare la colpa una volta per tutte.

In alcuni casi il gesto viene compiuto o tentato per indurre senso di colpa nell’opinione pubblica e nelle Istituzioni. Come un’estrema richiesta di aiuto indirizzata a chi ignora giornalmente i problemi e il bisogno di assistenza, di chi, non ha più nemmeno la libertà, ma solo la propria vita e che vede questo bene svalutarsi nel buio di una cella giorno dopo giorno.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha individuato gli strumenti necessari per la realizzazione di un programma di prevenzione e di intervento diretto ad abbattere il numero dei suicidi in carcere attraverso una preparazione del personale carcerario mirata a riconoscere ed evitare i fattori di rischio più comuni.

Eliminare i maggiori fattori di stress, dare rilievo al supporto familiare e favorire l’integrazione e la comunicazione tra i detenuti sono solo alcune delle misure preventive suggerite dal programma. Inoltre sono previste anche procedure di emergenza e pronto intervento rapido da adottare quando l’atto è già in essere per ridurre a tentativo quello che sarebbe certamente suicidio consumato. C’è ancora molto da fare per rendere gli istituti di pena dei luoghi vivibili dove i soggetti possano imparare dai loro sbagli e prepararsi alla reintegrazione nella società. Purtroppo siamo ancora lontani dalla situazione quasi idilliaca prescritta dal primo comma dell’ articolo 1 legge 354/1975, nota come Ordinamento penitenziario:”il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”.

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