I Ficosecco sono una famiglia come tante: mamma Alessia, papà Andrea e due bambini, Giulio e Leonardo. La loro routine fatta di giochi, colori e passeggiate con il cane Poldo, però, viene sconvolta dalla scoperta che il più piccolo dei fratelli, Leonardo, ha una malattia rara: l’atresia delle vie biliari. Per curarlo serve un trapianto di fegato. “Nato con la camicia” è il diario dei difficili anni passati su e giù per l’Italia tra ecografie, ricoveri, diagnosi e centri trapianti. A scriverlo l’amica di famiglia Daniela Giacchetti, capace di restituire con semplicità, umanità e dolcezza una storia universale, dove l’angoscia, lo sconforto, la rabbia, il coraggio e la speranza si intrecciano ricordandoci quanto sia importante donare gli organi, investire come sistema Paese in una sanità pubblica di qualità ed essere presenti nella vita degli amici, dei conoscenti e dei familiari che stanno affrontando la malattia, anche solo offrendoci di cucinare un piatto caldo o fare la lavatrice.
Daniela, tu per professione scrivi, gestisci social media, organizzi eventi e per passione, invece, giochi a beach volley. Questo sport ti ha fatto conoscere Andrea e la storia della sua famiglia. Come ti è venuta l’idea di trasformarla in un libro?
Da tempo cullavo l’idea di scrivere un libro, ma non sapevo bene su cosa e come. Andrea giocava a beach con me. Una volta, in spiaggia, mi raccontò del percorso affrontato con Leonardo. Alessia, invece, la conoscevo meno. Poi, un giorno, dal nulla, quasi temendo di “chiedermi troppo”, lei mi contattò su Facebook e mi chiese se me la sentivo di scrivere la storia in un libro, pro bono. Voleva lasciare una “memoria” di quanto accaduto ai figli e sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità della donazione di organi. Essendo figlia di padre trapiantato, mi sembrò un incastro perfetto. Mi vennero letteralmente i brividi e dissi subito di sì.
Raccontare la storia di un neonato che lotta per sopravvivere a una grave malattia è doloroso. C’è stato qualche passaggio che hai fatto fatica a scrivere?
Sì. Giunta a metà stesura, ho avuto il famigerato blocco dello scrittore. All’inizio, mi interrogavo su come coinvolgere i lettori, senza annoiarli con i termini medici. Poi, un pomeriggio mentre guidavo, il libro mi si è aperto nella mente da solo: ho cominciato a immaginare ogni personaggio della famiglia che narrava la sua parte… e così è stato. Ascoltavo i racconti dettagliati di Alessia, entravo nel suo “io” e nelle sue emozioni, forti, potenti, travolgenti. Mi immaginavo nei panni di ciascun membro della famiglia, persino in quelli del cane Poldo. E quando scrivevo, ero loro. Con Andrea è stato più difficile perché è più chiuso, l’opposto di Alessia. Poi, verso metà libro, il blocco! Per un po’ ho smesso di scrivere, non riuscendo bene ad individuare quali emozioni mi avevano portata allo stop. Ho lasciato che passasse da solo. E così è stato. Ho ripreso e finito il lavoro. Oggi penso che siano state le troppe emozioni a bloccarmi. Immaginarmi nei panni dei Ficosecco, mettere nero su bianco il loro vissuto è stato qualcosa di grande da digerire. Un coinvolgimento molto provante.
Che cosa ti ha colpito di Alessia e Andrea quando hanno cominciato ad affidarti la loro storia?
Le differenze. Il modo diverso con cui hanno saputo raccontare fatti ed emozioni. Entrambi totalmente coinvolti, con modalità personalissime. Da Alessia mi arrivava la necessità di tirare fuori tutto il trauma, il dolore, la paura, la speranza, la forza. È stata come un libro aperto: si è affidata a me e io sono “entrata” in lei. Un po’ perché entrambe donne, entrambe mamme. Andrea è stato più difficile da analizzare, sebbene lo conoscessi da più tempo: parco nella condivisione di emozioni, riassuntivo nei racconti, quasi sbrigativo, non per questo meno intenso. Perché la paura che ha provato gliela leggevo negli occhi. Da subito mi sono sembrati chiari i ruoli: lui si è affidato in qualche modo a lei, che ha tirato le fila del loro dramma. Ciononostante, Andrea è stato un protagonista assoluto, anche se un po’ più in ombra.
In questo libro, racconti una storia di rinascita, analoga, per certi versi, a quella della tua famiglia. Come avete affrontato il percorso del trapianto assieme al tuo papà e che ricordo hai del momento in cui vi hanno confermato che c’era un rene disponibile?
“Nato con la camicia” è dedicato a mio padre, fin dalle prime parole. Un regalo per dimostrargli quanto fossi orgogliosa di essere sua figlia e per ringraziarlo per i suoi insegnamenti meravigliosi. Lui ha avuto i primi segnali della malattia quando io nascevo e negli anni ha passato tutte le fasi correlate: dall’alimentazione senza sale e senza acqua, alla dialisi peritoneale, infine alla emodialisi. Con un bel contorno di farmaci, tanti! Una vita di privazioni. Veramente difficile. Mia madre è sempre stata la sua assistente numero uno e lui ha affrontato tutto con il sorriso, guardando al lato positivo delle cose. Aveva una totale fiducia nella scienza, nella medicina e nell’approccio positivo alla vita, ed è stato un paziente modello. Ha avuto una gran cura di sé. Diceva sempre che «la vita è un bene prezioso e va tenuta a conto, bisogna volersi bene». Si era messo in lista per il trapianto e, proprio quando pensava di essere ormai troppo in là con gli anni, una notte – di sabato, come tristemente spesso accade – lo hanno chiamato: c’era un rene disponibile per lui e lo invitavano a partire subito per Verona. Ha telefonato a noi tre figlie, chiedendoci un parere. Lo abbiamo esortato a partire immediatamente e così, accompagnato da mio zio, è andato. È stato un bel momento, che nei miei ricordi associo alla nascita di mia figlia, avvenuta poco tempo prima, e quindi alla Vita. Vita che, comunque va detto, dopo un trapianto non torna normale: si rimane soggetti fragili. Noi, la sua famiglia, abbiamo sempre guardato con ammirazione a quanta cura si è preso di sé e al miracolo che ha compiuto: quel rene donato, lui è riuscito a portarlo – anche piuttosto bene – per ben ventidue anni.
Cosa significa la parola «trapianto» per te?
Significa dono, vita, speranza, amore. Ho una visione piuttosto laica della vita, credo alla scienza più che ad altro, ma penso che gli angeli esistano: sono quelle persone in carne ed ossa che sono capaci di donare. Donare se stessi è il dono più grande che si possa fare.
Quanto è diffusa la pratica della donazione degli organi in Italia? Secondo te, i numeri bassi sono questione di resistenza culturale o una sorta di convinzione che “tanto a me non succederà”?
Penso che la pratica delle donazioni abbia raggiunto, oggi, numeri più elevati rispetto al passato, ma non ancora sufficienti. Fortunatamente, se ne parla di più e così facendo si abbattono molti tabù. L’opera di sensibilizzazione per argomenti come questi è fondamentale, ma non può essere lasciata solo a qualche organizzazione o ai singoli. Credo che le politiche governative, le istituzioni, le scuole, debbano fare molto di più e tirare giù quei muri costruiti da anni di ottusità culturale e religiosa, o da semplice mancanza di informazioni e di formazione, che non può essere quella dei social, altrimenti si scatena la disinformazione, o peggio, la formazione fake.
Come possiamo promuovere una più diffusa conoscenza di questi temi?
Parlando, raccontando, scrivendo, testimoniando, sensibilizzando. Con il coinvolgimento ufficiale delle istituzioni. Mi piacerebbe si facesse formazione su questi temi a scuola, invitando testimoni, raccontando storie vere. Non c’è peggior nemico dell’ignoranza.
Ci sono nuovi libri in cantiere?
Mi piacerebbe. Ma è una sorta di loop continuo. Sono nella stessa fase pre “Nato con la camicia” Quindi, chissà se un altro libro verrà a cercarmi e trovarmi!