Normalmente disabile

Autori:Olga Paris

Data: 01/08/16

Rivista: agosto 2016

C’era una volta una casetta…. Le storie che si raccontano ai bambini (spero che se ne raccontino ancora!) iniziano sempre così. E questo è l’inizio della mia storia che vi voglio raccontare. Lo voglio fare soprattutto per comunicare alle persone, ma prima di tutto alle famiglie, il concetto di indipendenza. Ciascuno di noi percorre la propria strada verso l’indipendenza e l’autonomia, ma se sei disabile è tutto più difficile. Essere disabili vuol dire fare i conti con i propri limiti, avere a disposizione pochi “percorsi” per raggiungere l’autonomia e spesso non avere nemmeno una chance per ottenere la propria indipendenza, qualsiasi forma essa abbia.  Ognuno di noi, disabili e non, nell’adolescenza e vivendo in famiglia, si trova in una casa dove sono i genitori che “dettano le regole” e che si occupano di tutto, dalla gestione, all’economia, alla direzione di tempi e spazi etc. E quando si ha una disabilità la situazione è ancora più complicata, perché è molto difficile raggiungere anche un minimo di indipendenza, sia per ovvi motivi, che per quei meccanismi familiari che si possono instaurare fra membri della famiglia e la persona disabile e che frenano il percorso di crescita. Io, come tutti gli adolescenti, vivevo con i miei genitori e le mie sorelle e dipendevo molto da essi soprattutto a causa della mia disabilità. Ma volevo provare a spiccare il volo anche con una sola ala, anche con il rischio di cadere dal nido e farmi male. Quando arrivò l’ora di scegliere l’Università fra le sedi che io avrei preferito c’erano Toronto, Milano, Roma e Londra; ma la scelta finale, meno appetibile all’epoca ma più idonea per me, è stata Trento: Università di Sociologia, Corso di Studi Internazionali. Nella ricerca dell’offerta formativa e delle regole dell’Università di Trento mi ero imbattuta nel sito dell’Opera Universitaria dove c’era una sezione dedicata alle persone che “soffrivano” di disabilità (io stavo soffrendo per una scelta condizionata dalla mia disabilità). La cosa mi aveva incuriosito molto e vedendo tutti i servizi di supporto che venivano offerti, la voglia di cominciare l’Università a Trento aumentava. Ma dentro di me sapevo che mancava ancora qualcosa, sapevo che casa mia sarebbe stata distante dall’Università e avevo paura di non riuscire a fare nuovi amici, di vivere l’università fino in fondo. Ricordo che nel leggere la sezione dedicata ai servizi mi balzò all’occhio, quello con cui vedo meglio, “l’Opera predispone di appartamenti domotici”. Appartamenti domotici? Non sapevo nemmeno il significato di “appartamento domotico”, ma avevo capito che quel che mi serviva era proprio quello, andare a vivere da sola per trovare una mia indipendenza e una mia identità. Dove presi il coraggio della decisione di dire ai miei che volevo andare a vivere da sola ancora non lo so, ma so che loro mi appoggiarono e, quindi, provammo a chiedere all’Opera Universitaria di Trento se c’era uno di questi appartamenti domotici disponibili per me. Mi ricordo che la speranza di veder realizzato quel sogno era tanta, ma ero consapevole della scarsa possibilità. Una mattina, sul presto, ricevetti una chiamata: era l’Opera Universitaria e l’incipit della telefonata era così lungo che faceva presagire una cattiva notizia. La voce al telefono ha esordito: “quindi signorina, dopo averle spiegato tutta la situazione , i pro e i contro, e le ragioni, le possiamo dire che l’appartamento è pronto e quando vuole può venire a ritirare le chiavi”. Sono rimasta senza parole, non avevo più voce, le lacrime scendevano e il sorriso si faceva sempre più grande, mi ricordo la sensazione del mio cuore che si apriva, della mente libera da pensieri pesanti. In quel momento ero già in volo anche se con una sola ala. C’era una volta una casetta…in piazza Garzetti, un piccolo monolocale domotico arredato, con tutti servizi necessari ad una persona disabile. L’appartamentino di Piazza Garzetti mi era piaciuto subito e con cura lo avevo reso mio personalizzandolo un po’. I primi giorni e le prime notti sono stati difficili, avevo paura ero molto affaticata e mi sentivo sola. Ammetto che non è facile per una persona disabile, abituata ad avere l’amore della propria famiglia, trovarsi da sola a fronteggiare il proprio dolore e provare a “vivere la propria casa”. Il mio primo traguardo verso l’indipendenza è stato poter chiudere le imposte e le tende da sola con un click del telecomando! A voi sembrerà poco, per me era tanto. L’emozione più forte l’ho provata quando ho potuto cucinare: avevo fatto pasta al pomodoro grazie al piano cottura regolabile in altezza. Seduta su una sedia, e mettendoci molto tempo, avevo cucinato da sola la mia cena, il mio primo piatto di pasta. Un’eccitazione così forte per un gesto tanto comune che però per me significava essere viva, aver realizzato un obiettivo da sola. Dopo era iniziata l’Università. Ricordo bene il giorno in cui mi sono recata con il mio carrellino a Sociologia, la distanza mi sembrava enorme ma ce l’avevo fatta. All’Università ho avuto la fortuna di conoscere fin da subito alcuni ragazzi e ragazze che non erano di Trento, o almeno non tutti e che sono diventati i miei amici. Dopo un paio di settimane una sera che non si sapeva cosa fare ho realizzato che io avevo una casa, e quella casa era mia!! Anche se con il timore di non farcela, con la paura di stancarmi, ho chiesto a loro di venire a casa mia, da me. L’ho chiesto come chiedevo un aiuto quando vivevo con la mia famiglia, non li avevo propriamente invitati, ma grazie al mio appartamento mi accorsi che potevo sentirmi a mio agio che la domotica e gli spazi attrezzati avevano annullato la mia disabilità. Anzi era un plus perché i miei amici erano gelosi di questo favoloso monolocale che a loro pareva un parcogiochi dei divertimenti. Da lì in poi i miei amici, comprendendo che per me era importante stare nella mia ormai adorata casetta tenuta con cura, venivano spesso a trovarmi, sfruttando anche il fatto che era vicino all’università. Abbiamo iniziato a studiare insieme, a guardare la tv e a preparare insieme pranzi e cene. Ogni giorno cresceva la voglia di vivere i miei vent’anni, in spirito di iniziativa, in maturità e cresceva la mia indipendenza, la mia identità di donna giovane. Mi sentivo normalmente disabile e non mi nascondevo per quello che ero. Il mio era un “grande monolocale” dove vivevo, pulivo, dove ho fatto le mie prime lavatrici, ho cotto le mie prime torte e ho fatto i miei primi piccoli party serali. Tutto ciò ha reso me una persona tenace che lottava perché vedeva finalmente dei risultati, anche se conquistati a caro prezzo. Andare a vivere da sola comporta una gestione della casa che necessita di tempo ed energie, una responsabilità nel fare le cose di tutti i giorni, ma aiuta a far cresce l’autostima in se stessi e la possibilità di fare amici. Certo vivere nel centro storico della città è stato di aiuto perché non ci si sente mai soli, c’è sempre gente e il solo poter andare a bere il caffè a piedi era per me molto importante a livello psicologico e fisico. Non è stato facile, anzi ero sempre molto stanca ma almeno mi sentivo viva e utile a me stessa, anche se ovviamente c’era sempre un po’ di supporto della famiglia ma il rapporto era cambiato perché io ero cresciuta. C’era una volta una casetta…. che era diventata la casetta di tutti. Dopo alcuni mesi infatti il mio piccolo appartamento era il luogo di incontro data la posizione, e la mia disponibilità a costruire un legame, ancora a me sconosciuto, fra la casetta e i miei amici. Tutti, compresa me, ci sentivamo a casa. Quei momenti con i miei amici li ho potuti vivere perché ero andata a vivere da sola, perché questo appartamento mi dava la possibilità di esprimermi, grazie all’aiuto della tecnologia. Andare a vivere da sola è stata la scelta migliore per me e credo lo possa essere per tutti i ragazzi e le ragazze disabili: è solo confrontandoci da soli direttamente con i nostri limiti, provando a superare le difficoltà, dove è possibile, e sentendoci realizzati anche nelle piccole cose, che ci rende meno dis e più abili. L’indipendenza richiede volontà e determinazione per orientare il proprio comportamento ad affrontare positivamente il mondo circostante e la soluzione è provare da soli a spiccare il volo. Consiglio a tutti i disabili che sentono di avere il coraggio e ne hanno la possibilità, di intraprendere questa avventura e di andare a vivere da soli perché è determinante l’assumersi delle responsabilità ed avere la possibilità di esprimersi liberamente e di creare la propria casa come il proprio mondo, fatto di sofferenze e pianti ma di grandi traguardi come farsi il caffè, gestire la casa e poter studiare. Andare a vivere da soli non deve portar a pensare alla solitudine e all’isolamento. Siamo noi disabili che dobbiamo trarre vantaggio da questa possibilità di essere soli per invitare amici e costruire così nuovi legami. Io non ho raggiunto ancora la piena indipendenza e autonomia ma questa casa ha reso i miei anni migliori, aiutandomi a livello motorio perché potevo fare piccole passeggiate in centro; a livello di studio perché potevo frequentare l’università grazie alla vicinanza; a livello psicologico perché mi sentivo di fare sempre passi in aventi anche se c’è voluto tanto tempo. Infine a livello sociale perché c’era una volta la casetta di Olga dove tutti si sentivano a proprio agio, dove ci sono state serate divertenti e giornate di studio prima dell’esame, dove Olga era (la disabile con la casetta da disabile) super invidiata. Il raggiungere l’autonomia e aumentare la sfera di amici mi ha portato a percorrere quella strada verso la maturità e l’indipendenza e soprattutto mi ha portato tanta felicità. C’era una volta una casetta che ha cambiato la vita di Olga. Un ringraziamento speciale all’Opera Universitaria di Trento e a Gianni Morelli in particolare. Ringrazio anche i miei amici Marcello, Martina e Marianna che hanno reso i primi anni in questo monolocale i più begli anni della mia vita, aiutandomi a crescere e a migliorare. A spiccare il volo senza ma!!!

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