È un uomo che fa centro, Oscar De Pellegrin. Per la sua capacità di mirare al bersaglio, di superare le avversità della vita, di ispirare con la sua storia e il suo esempio. Scegliendo di trattare in questo numero di cambiamenti anche socio-culturali, e con ancora negli occhi le imprese dei nostri atleti alle Paralimpiadi di Tokyo, ci è sembrato naturale coinvolgere l’ex arciere e tiratore bellunese. Una persona che, da sportivo e poi da dirigente, tra record e titoli, medaglie ed onorificenze, si è sempre spesa per far crescere il movimento paralimpico e dargli dignità. Siamo andati a trovarlo nella sua casa di Sopracroda, sopra Belluno, alle pendici del Monte Serva. Questo è quello che ci ha raccontato.
Oscar partiamo dal principio, raccontando la tua storia fino al momento in cui qualcosa è cambiato.
La mia storia è iniziata 58 anni fa, proprio qui a Sopracroda. È stata un’infanzia bellissima: ho avuto la fortuna di avere una famiglia forte, che mi ha insegnato i valori, l’attaccamento, la passione, il rispetto per la terra in cui viviamo. Finite le medie, ho trovato subito lavoro come meccanico, intanto davo una mano nell’azienda agricola di famiglia. A 18 anni avevo già la macchina, che con l’aiuto di mio papà e mio fratello avevo sistemata e tirata a nuovo. Poi amicizie, fidanzate, lavoro.
Fino ai 21 anni, quando la vita corre veloce e ti appaga. Mai avrei pensato che un incidente potesse capitare a me. Invece, proprio nell’azienda di famiglia, mi sono rovesciato con il trattore. Da lì è cambiata completamente la mia vita. Per una lesione midollare ho perso l’uso delle gambe. Quando mi sono svegliato dal coma, il medico mi ha detto che avrei dovuto vivere su una carrozzina. Un messaggio molto forte. Nel 1984 avere un disabile in casa era un disonore: la società non era abituata a vedere la diversità.
Che reazioni ci sono state attorno a te? E tu come l’hai presa?
I famigliari vedevano sempre Oscar, anche se in maniera diversa. Tanti invece mi vedevano come un extraterrestre, non guardavano più Oscar negli occhi, ma le ruote e la carrozzina. Questo mi faceva veramente male. Mi ha dato forza l’aiuto di famiglia, amici e soprattutto di Edda, l’allora fidanzata, che ha voluto rimanere con me, aiutarmi in questa fase di transizione tra la prima vita e la seconda, che poi abbiamo costruito insieme, con un matrimonio ed un figlio. Anche questa una storia molto bella, con valori profondi, grazie ai quali si può superare qualsiasi avversità.
Come ti sei avvicinato allo sport?
Lo sport è stato un elemento utilissimo per rivedere una possibilità nella mia vita. Un amico, Renzo Colle, mi disse che attraverso lo sport avrei potuto scoprire nuove abilità, vivere un nuovo ambiente e trovare pian piano la mia strada. E così è stato. Sono andato, le prime volte con un po’ di timore, al tiro a segno, ho provato atletica, tennis, arco. In questi contesti ho notato subito che si guardava la persona e non la diversità. Quando andavamo a tirare, eravamo uguali. Nel giro di pochi anni sono riuscito a trovare una collocazione nello sport e un inserimento “normale” nella società.
Da qui è partita una carriera ultraventennale nel tiro a segno e, soprattutto, con l’arco.
I miei tecnici, percependo che avevo delle buone qualità, mi hanno spronato. Così ho investito il mio tempo e aumentato il mio livello. Già nel 1990, solo 6 anni dopo l’incidente, ho avuto la prima convocazione ad un mondiale, in Inghilterra. Un grande obiettivo raggiunto: voleva dire autonomia, esprimere un potenziale attraverso lo sport, conoscere il mondo. Da lì è iniziata una grande carriera, con due Paralimpiadi nella carabina (Barcellona ’92 e Atlanta ’96, con due medaglie) e quattro nel tiro con l’arco. L’unica disciplina che non ha distinzioni tra atleti normodotati e disabili: potenzialmente anche i secondi possono arrivare a gareggiare alle Olimpiadi, come successo nel ’96 a Paola Fantato. Nella mia testa si poteva innescare quel rapporto tra atleti nella massima normalità. Un segnale molto bello. Da lì ho investito nel tiro con l’arco. Tra Sidney 2000, Atene 2004, Pechino 2008 e Londra 2012 ho portato altre quattro medaglie, tra cui un oro a squadre. A Londra sono stato designato portabandiera e ho vinto l’oro individuale: il coronamento di una carriera, qualcosa di straordinario.
Il tiro con l’arco ti ha permesso di avvicinare le persone e convincerle a guardare la disabilità con altri occhi. Hai avuto e hai un ruolo da testimonial.
Quel che ho percepito nell’ambiente sportivo l’ho investito mettendomi a disposizione della società. Per far capire che un disabile non ha scelto di esserlo, che prima di tutto è una persona, e in quanto tale va rispettata e compresa. Poi, se riesci a dare il buon esempio, avviene il miracolo. Attraverso lo sport paralimpico, in questi 30 anni abbiamo veramente cambiato, fatto crescere culturalmente, la società. Nel ‘92 nessuno sapeva delle Paralimpiadi, oggi sono sullo stesso piano delle Olimpiadi. Abbiamo creato impatto e conoscenza nella gente, siamo arrivati a tv e giornali. Alle persone piace vedere con i propri occhi atleti che dimostrano impegno, forza di volontà, non si abbattono di fronte alle difficoltà, raggiungono il proprio obiettivo. Lo sport è l’elemento che mi ha spinto a investire in questi valori. Tutt’oggi, da dirigente Fitarco e CIP, continuo a portarli avanti.
Tra 24 agosto e 5 settembre ci sono stati i Giochi Paralimpici di Tokyo. Se si esclude la prima, è l’edizione che ha portato più medaglie.
Un bilancio straordinario e non prevedibile. Il 25-30% delle 69 medaglie sono arrivate da persone alla prima partecipazione. Grazie ai progetti del CIP sull’avviamento allo sport nei programmi di riabilitazione, in tanti hanno investito nell’attività sportiva come mezzo per un’inclusione sociale piena. Questo è stato secondo me il grande messaggio di Tokyo, oltre alle 69 medaglie. Il mondo paralimpico ha fatto una parte veramente importante, unitamente ai nostri colleghi olimpici. Per l’Italia tutta è stata un’edizione straordinaria, che rimarrà scritta negli annali.
Negli anni come è cambiata la percezione della disabilità?
Tanto si è fatto. Non è sicuramente ancora sufficiente. Ormai la carrozzina, la protesi, gli ausili vari sono sdoganati. Non è più un grosso problema vedere l’atleta disabile. Ma non dobbiamo fermarci: bisogna lavorare nelle scuole, sui giovani, e far capire a questo mondo che siamo persone e dobbiamo aiutarci. Dobbiamo spingere su questo tasto, dal mondo sportivo fino al tessuto sociale e istituzionale. La persona con disabilità, se messa in condizione di esprimere il proprio potenziale, può essere una grande risorsa per la società. Noi magari vedremo poco il cambiamento, ma a chi verrà dopo di noi avremo fatto un grande servizio.
Che cambiamenti hai visto nel tempo nel movimento paralimpico? E cosa ancora si può fare?
I cambiamenti sono stati enormi. Da Londra è cambiato un mondo, solo con un cambio di dicitura: atleta paralimpico. Abbiamo avuto riconoscimenti e premi medaglia, pur non ancora uguali a quelli degli olimpici, ma per una valutazione del CIP: attualmente non abbiamo gli stessi numeri, dobbiamo salire per gradi. Però i ricevimenti al Quirinale sono comuni: il mondo dello sport, olimpico e paralimpico, si muove insieme. Questo secondo noi è una grande valorizzazione, un grande messaggio che lanciamo alla società. Questo è il grande cambiamento. Dobbiamo spingere su questo tasto: crescere di numero, individuare chi ancora non ha la forza di farsi vedere, e rendere questi soggetti autonomi, sportivi, cittadini. Ormai il mondo della disabilità fisica è abbastanza sdoganato; dobbiamo lavorare molto di più su quella intellettiva e relazionale. Sono ragazzi meravigliosi, bisogna dargli strumenti in modo che possano anche loro essere protagonisti. Insieme, dobbiamo costruire un mondo per tutti.