Questa è la storia di una grande vittoria dell’umanità e della generosità dell’uomo che l’ha permessa.
Albert Bruce Sabin era di umili origini e difficilmente avrebbe potuto accedere ai costosi studi universitari se il destino, nei suoi imperscrutabili disegni, non avesse deciso di intervenire. Infatti un suo zio dentista, desiderando farne un collaboratore per il suo studio, gli pagò l’iscrizione e la frequenza alla facoltà di odontoiatria della New York University che lui frequentò con buon profitto. Ma aveva circa vent’anni quando gli capitò tra le mani il libro di Paul de Kruif , “I cacciatori di microbi”: fu un colpo di fulmine a seguito del quale abbandonò la facoltà di odontoiatria e si iscrisse a quella di medicina. Naturalmente lo zio dentista si rifiutò di continuare a pagargli la retta, ma fortuna volle che riuscisse ad ottenere una borsa di studio che gli permise di continuare a dedicarsi a quegli studi di microbiologia che tanto lo appassionavano. Molta importanza riveste in questa storia l’incontro con il già celebre batteriologo William Hallock Park, famoso per le sue ricerche sulla difterite, che lo volle come suo assistente e ne fu il mentore. Park gli consigliò di concentrarsi sullo studio del poliovirus che in quegli anni mieteva molte vittime e aveva provocato a più riprese numerose epidemie.
«Quindi non fu una mia scelta: fu l’unica volta che feci qualcosa dietro suggerimento di un altro» sono le parole di Sabin.
Dopo la laurea in medicina si recò a lavorare presso l’università di Cincinnati e vi rimase per trent’anni, continuando con passione e dedizione gli studi di microbiologia. Il poliovirus, sul quale concentrò le sue ricerche, è un enterovirus, ovvero si trasmette attraverso l’ingestione di acqua o cibi contaminati ed è molto subdolo poiché nel 90% dei casi si sviluppa come una normale enterite con disturbi intestinali, diarrea e febbre, rendendo difficile la diagnosi e il riconoscimento di malattia virale e contagiosa che, quindi, necessita delle opportune misure per evitarne la diffusione. Nel restante 10% più probabile è lo sviluppo di una meningite asettica; purtroppo, nell’1% dei casi il virus migra e, attraverso il flusso sanguigno, raggiunge i gangli motori del sistema nervoso, con conseguente paralisi degli arti. Può colpire a qualsiasi età, ma preferisce i bambini al di sotto dei cinque anni, che ancora non hanno completamente sviluppato il sistema immunitario. Varie epidemie di polio si sono succedute nel corso della storia, anche se soltanto dagli ultimi decenni del 1800 se ne è compreso il carattere di malattia epidemica.
Nel 1938 il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosvelt, fu costretto su una sedia a rotelle da quella che all’epoca gli fu diagnostica come poliomielite. Fondò quindi la “National Foundation for Infantile Paralysis” con lo scopo di raccogliere donazioni per lo studio della malattia e delle cure per debellarla. Il 20 gennaio di ogni anno, nel giorno del compleanno di Roosvelt, l’associazione invitava tutti i cittadini statunitensi a versare 10 centesimi per la lotta al terribile morbo. Furono così raccolti molti fondi che permisero alle università e ai centri di ricerca di studiare un vaccino che fosse sicuro ed efficace per prevenire la diffusione virale. Anche l’università di Cincinnati, dove nel frattempo Sabin aveva acquisito un ruolo di rilievo, poté usufruire di quei finanziamenti.
Dopo anni di lunghe e faticose ricerche, nel 1953, Sabin annunciò la messa a punto di un siero, costituito da virus attenuato, cioè incapace di migrare e provocare il danno paralitico, ma in grado di produrre la risposta anticorpale. E ci volle molto tempo perché venisse approvato, proprio a causa del fatto che la somministrazione di virus vivi, anche se attenuati, richiedeva molte cautele.
O almeno, fu questa la motivazione ufficiale.
Sia gli Stati Uniti che molti paesi europei, Italia compresa, preferirono infatti un altro vaccino che nel frattempo era stato prodotto, il vaccino Salk che utilizzava virus uccisi con formalina, ma non era esente da complicazioni che in alcuni casi portarono anche alla morte e, inoltre, necessitava di richiami. Molti stati, infatti avevano fatto grossi investimenti per acquistarlo e somministrarlo ai cittadini e perciò intendevano utilizzarlo anche a costo di qualche vita umana.
Si fecero, invece, avanti alcuni paesi dell’est europeo che chiesero a Sabin di poter sperimentare il suo vaccino sulle loro popolazioni. Fu un enorme successo che ridusse ai minimi termini la diffusione del poliovirus in quei luoghi. Sabin donò i suoi ceppi virali agli studiosi dell’Unione sovietica affinché potessero studiarli, superando anche la cortina di ferro che in quegli anni divideva i paesi occidentali da quelli del blocco di Varsavia. Solo nel 1963 negli Stati Uniti e in molti altri stati occidentali, Italia compresa, il Sabin divenne il vaccino d’elezione.
Per mantenere basso il costo del suo siero e permetterne la diffusione su vasta scala anche ai paesi poveri Sabin non lo brevettò mai, rinunciando allo sfruttamento da parte delle case farmaceutiche e ai grandi guadagni che avrebbe potuto ricavarne, continuando a vivere col suo stipendio di professore universitario che certo non lo fece ricco.
«Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo».
Grazie alla sua generosità il poliovirus ha oggi una diffusione bassissima e si avvia all’eradicazione. In un mondo che l’industrializzazione e il commercio hanno reso interconnesso e i mezzi di trasporto hanno reso piccolo, l’unico modo di vincere le battaglie virali è l’accessibilità diffusa a livello mondiale dei farmaci e delle cure, anche e soprattutto tra i paesi più poveri, per stroncare la diffusione di quei patogeni che altrimenti, per l’evoluzione naturale che caratterizza tutti gli organismi viventi, col tempo possono farsi beffe di tutte le nostre belle scoperte mediche, conquistandosi sempre nuove resistenze. Sabin lo sapeva.
Avrebbe forse meritato il premio Nobel, ha comunque conquistato l’immortalità, poiché la sua impronta sul destino dell’umanità è stata e rimarrà profonda.
«Mi è parso che uno specialista in virus come sono finito per diventare, abbia il dovere di usare le sue conoscenze per far del bene all’umanità».