Gli anni ‘70 li ricordiamo tutti come anni degli ideali concreti, gli anni della critica alle “istituzioni totalizzanti”. Si parlava un po’ ovunque, un pò tutti, di scuola, di medicina, di corporazioni professionali, del sistema e dei meccanismi di controllo e di creazione di cittadini “dipendenti” e assoggettati al potere, secondo noi allora, ben individuabile. La critica alle “istituzioni totalizzanti”, originava in quanto distruttive della spontaneità, dell’individualità, di un personale modo di intendere ciò che avevamo attorno e che stavamo per riconfigurare e conquistare.
“Istituzionalizzare” significava, circoscrivere, definire dei prototipi a cui si doveva aderire per appartenere e per accedere. Ogni cosa, sentimento, situazione veniva incorporata dalla società, secondo i codici dell’istituzione che se ne doveva occupare mentre, per contro si tentava di individuarne l’antitesi. Nello stesso dibattito si inseriva il concetto di ammalato, di corpo fisico e psiche, di malattia e terapia.
L’istituzionalizzazione della società la si pensava come un fenomeno già avvenuto, che costituiva il passato, la tradizione, mentre la “personalizzazione”, costituiva e rappresentava una radicale inversione di tendenza, un’innovazione da realizzare e diveniva sinonimo di “liberazione”. La dimensione individuale, spontanea, anarchica esterna all’istituzione era una conquista dell’epoca. Adattare tale dimensione, per noi allora “rivoluzionaria”, ad esigui spazi interni all’istituzione, fu il compromesso dei decenni successivì.
Entrambi questi processi sono tuttora presenti e ancora in divenire ma, come faglie tettoniche in movimento, sono in attrito fra loro e fortunatamente non si può tornare indietro. Ciò che ancor oggi nettamente prevale è l’apparato sull’individuo. La istituzionalizzazione della società è dunque preponderante e riconoscibile anche nel particolare come ad esempio nella gestione odierna dell’autismo, il quale si concretizza dal punto di vista epidemiologico, diagnostico, terapeutico, sociale, solo se rientra in un prototipo definito. Prototipo che però costringe la sua gestione in luoghi e tempi deputati, in mani specializzate e legittimate, in procedure regolate di integrazione e di gestione sociale del problema come davanti ad un “unicum” facilmente regimentato.
L’istituzionalizzazione dell’ammalato, ha in sé grandi valori perché dovrebbe consentire un approccio comune, legittimato, più rigoroso, articolato, continuo, controllabile, economico, ma ha in sé anche aspetti negativi. È questo un processo fagocitante i singoli ruoli, che rimuove definitivamente il coinvolgimento diretto, la scelta personale, la responsabilità di ciascuno; promuove la passività e si esprime per delega. La istituzione può dunque diventare una macchina spaventosa di dipendenze e controlli, praticamente inamovibile, poco duttile, statica, sorda a qualsiasi varianza, sempre più scarna nelle erogazioni anziché variegata.
L’ambiguità, la dinamica, la specificità del singolo caso e la sua rapida evoluzione invece mettono in crisi l’idea di un rapporto “esclusivo” con l’istituzione, con le sue risposte aspecifiche e normate da un’etica che è sempre “totalizzante” dove il “tutti” è l’unica scelta possibile, criminalizzando con leggi precise qualsiasi ingerenza dell’uno che vi si oppone.
La società dell’omologazione, dei “tutti” si fa carico “formale” del problema di ciascuno, sostenendo chi soffre ma contemporaneamente ne decreta collocazione, iter procedurale e così implicitamente l’esaurimento della domanda.
Ogni forma spontanea di compassione (nel senso nobile del termine: “farsi carico”), di condivisione, qualsiasi scelta individuale di “amore”, persino l’associazionismo e il volontariato, sono sottoposti a regolarizzazione, a normativa.
La compassione è descritta nell’Esodo, con il termine ebraico “rahum”, un sentimento struggente che esprime la sensazione di una donna-madre quando il suo grembo è eccitato dall’amore. Gli ellenisti tradussero questo atteggiamento con la parola “eleomosyne,” da cui viene il nostro termine “elemosina”, che rimuove il suo connotato carnale, appassionato, intimo. Così la “rahum”, da esperienza soggettiva, diventa pietà, misericordia, collettiva, istituzionalizzata, qualcosa che Platone e Aristotele consideravano un difetto morale”.
Lo sguardo, l’amore e la conoscenza, possibili prima in orizzonti completamente personali, sono ora gestiti, assicurati e garantiti da questo “amore, scienza di stato”, che sottomette ogni emozione e volontà personale a una legislazione, ai sacerdoti del tempio.
E se i sacerdoti non celebrassero riti propizi?
L’istituzionalizzazione dell’autismo non è stata edificata sulla specificità della malattia ma fatta aderire forzosamente a ciò che già esisteva o aggiustando le prospettive di ciò che stava per nascere (l’integrazione). La sua gestione, visti i risultati, si potrebbe (“graziosamente”, n.d.a.) definire “formale”…eppure coinvolge strutture diffuse, convenzioni esterne, schiere di professionisti che si è obbligati ad onorare; occupate ad esaudire contemporaneamente mille altre richieste. Le sensibilità per una questione di numeri e di forza contrattuale, spostano l’attenzione, gioco forza, dall’individuo con autismo verso altre dimensioni, legittimando sempre più l’affermarsi di nuovi bisogni dei numerosi e già nominati “tutti”, oltre l’”ammalato”.
Con la gestione attuale dell’autismo, la situazione di caio o sempronio, può essere grottescamente definita “risolta”, in un modo o nell’altro, ma tali conclusioni sottendono nuove mostruosità, il mascheramento del vero problema perché “futuro” del problema, quello che non viene mai affrontato: ciò che non si fa e ciò che si tollera nel trattamento dell’autismo del bambino.
Questo richiamo suona particolarmente disorientante per coloro che si sono abituati a guardare il presente senza fare i conti con il passato, perché questo significherebbe cogliere il vuoto procedurale di allora e l’allarmante e disumana sua attualità. La natura di questa alienazione sta nel fatto che affrontare realmente l’abilitazione del “bambino autistico” è una impresa che dovrà andare “oltre l’istituzione” e che realizzare questo intervento, articolato e complesso,. renderebbe superfluo gran parte del mondo che l’istituzione sta costruendo e che così com’è, al bambino con autismo non serve a niente.
Il tradimento dell’abilitazione è lo scandalo, l’iniquo che affligge l’autismo.
Dal riscontro concreto, sotto gli occhi di tutti, di fallimento, in una prospettiva nazionale, discende invece un costante, innarrestabile potenziamento ulteriore del lugubre apparato che si ostinano a costruire per contenere, tacitare, disperdere l’autismo.
Leggi e la seconda parte di questo articolo.