Perle di saggezza senza pretese

Data: 01/04/09

Rivista: aprile 2009

All’inizio del secondo libro del suo poema Sulla natura Lucrezio così celebra l’ideale epicureo della vita:

È dolce, quando i venti sconvolgono la superficie delle acque del mare sconfinato, osservare da terra il pericolo altrui: non già perché rechi gioia o piacere che qualcuno sia in difficoltà, ma perché è dolce osservare di quali mali tu stesso sei privo. Dolce è altresì osservare le grandi contese della guerra dispiegate nelle pianure, senza che tu corra alcun pericolo. Ma nulla è più dolce che abitare i luoghi sereni protetti dalla saggezza dei filosofi, da cui tu posa vedere ed osservare gli altri che vagano e, sbandati, cercano la via della vita; che gareggiano con l’ingegno, contendono in nobiltà di spirito, si affaticano giorno e notte senza tregua per emergere ai sommi fastigi ed impadronirsi del potere. Oh infelici menti degli uomini, oh animi ciechi!

Dietro questi versi, dietro questa raffigurazione dell’ideale, è facile scorgere l’immagine serena di Epicuro, l’esempio concreto della sua vita stessa, che questo ideale riuscì ad incarnare e a conservare intatto e coerente negli anni turbinosi in cui cadde la sua esistenza.

Secondo le fonti antiche, Epicuro nacque nel mese di Gamelione del terzo anno della 109° Olimpiade, sotto l’arcontato di Sosigene, cioè nel gennaio-febbraio del 341 a. C.

Gli anni della sua vita furono tra i più turbinosi e memorabili della storia greca ma di tutto ciò la vita e l’opera di Epicuro non conservano neppure l’eco lontano e ciò non è senza ragione: lo spettacolo delle vicende umane, sia private che pubbliche, ha valore solo nella misura in cui può rammentare da quali mali il saggio deve preservare il suo animo, per conquistare un imperturbabile serenità e per godere dei beni della filosofia e della sapienza.

Epicuro contestò con molta energia ogni influsso di altri filosofi su di lui, negò di aver mai avuto maestri e coprì di sarcasmi e di ingiurie i filosofi precedenti. Epicuro iniziò la sua attività di maestro di filosofia all’età di 32 anni: nel 310n a. C. circa fondò una scuola filosofica. Nel 306 a C. si trasferì ad Atene, dove visse appartato, lontano dagli affanni del mondo e della politica, fino alla fine dei suoi giorni, lasciando la casa ed il giardino (il famoso “giardino di Epicuro”), dove aveva sede la scuola, in eredità ai suoi discepoli: “quelli del giardino”, come appunto venivano chiamati.

Il “giardino” fu, per molti aspetti, qualcosa di particolare, rispetto anche alle altre scuole del tempo: esso era non soltanto un’associazione di amici, ma vi prendevano parte anche le donne e gli schiavi. Del tutto assente era qualunque vincolo religioso, mentre vi era predominante la venerazione, anzi un vero e proprio culto per il maestro. Epicuro non si stancò mai di insistere sulla necessità di eliminare quei desideri che potessero portare turbamento e quindi infelicità; anzi, ne fece uno dei punti capitali della sua filosofia. Ecco perché la filosofia è la sola cosa che possa dare all’uomo la vera libertà e che possa medicare l’uomo dai suoi mali, dandogli la felicità. Come la medicina cura il corpo, così la filosofia ha il compito di curare l’anima: di qui quel nome complessivo di “quadrifarmaco” con cui vengono indicati i precetti contenuti nelle prime quattro massime capitali (Le cosiddette “Massime Capitali” sono una raccolta di 40 sentenze ed insegnamenti, che i discepoli dovevano imparare a memoria per conservare inalterati i principi fondamentali del pensiero del maestro) e che contengono il nocciolo della dottrina di Epicuro:

1- L’Essere beato ed indistruttibile, non ha egli, né reca ad altri, affanni; non l’occupa dunque l’ira, né benevolenza, perché tali turbamenti son solo nel debole. 2- Nulla è per noi la morte: infatti ciò che è disciolto è insensibile, e l’insensibile è nulla per noi. 3- Estremo limite, in grandezza, dei piaceri è la detrazione di tutto il dolore. E ovunque è piacere e, finché perdura, non v’è dolore dell’animo o del corpo o d’entrambi. 4- Non perdura continuamente nella carne il dolore, ma il massimo permane minimo tempo, e non persiste molti giorni quel soffrire che appena si sovrappone al piacere corporeo: anzi le lunghe malattie più hanno abbondevole il piacere del corpo che la doglia.

Analizziamole partendo però dall’ultima: anzitutto, cosa intende Epicuro per piacere? “Eliminazione del dolore” si conclude dalla sua Epistola a Meneceo, “Da tale punto di vista”, aggiunge, “tutti i piaceri sono uguali.

In questo senso, il piacere è veramente il principio e il fine di ogni felicità, di ogni bene possibile: “S’onori il bello e la virtù ed ogni altra cosa simile, se recano piacere, se no, salutatemeli tanto”.

Il piacere, se consiste nell’eliminazione del dolore, può essere il termine solo di quei desideri che non stimolino l’uomo verso mete vane, irraggiungibili e perciò dolorose. Epicuro distingue così tre specie di desideri: quelli naturali e necessari, quelli naturali ma non necessari e quelli né naturali né necessari. Solo i primi sono insopprimibili e tali che, se non soddisfatti, procurano dolore, e pertanto solo nella loro soddisfazione ed eliminazione consiste il vero piacere. Verso gli altri desideri, cului che vuole vivere felicemente farà di tutto, non già per soddisfarli, ma per non alimentarli. “Se vuoi far ricco Pitocle”, scrive Epicuro, “non accrescerne gli averi, ma sfrondane i desideri.”

Ma il conseguimento di una stabile condizione di piacere e di felicità non è raggiungibile se l’uomo non si libera da due paure: la paura della morte e la paura degli dèi.

La paura degli dèi altro non è che la conseguenza di un’opinione fallace sugli dèi: l’opinione, cioè, che essi intervengano con premi e soprattutto con castighi nelle vicende umane.

Altrettanto insensata è la paura della morte, e la dimostrazione che Epicuro ne dà gli suggerisce una delle pagine più alte che abbia scritto:

Abituati a pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, laddove la morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile la mortalità della vita: non che vi aggiunga interminato tempo, ma sgombra l’immediato rimpianto dell’immortalità. Nulla infatti nella vita è temibile, per chi sinceramente è persuaso che nulla di temibile ha il non viver più. È perciò stolto chi dice di temere la morte, non perché venuta gli dorrà, ma perché preveduta l’addolora: infatti quello che presente non ci turba, stoltamente, atteso, ci angustia. Il più orribile dei mali, la morte, non è dunque nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c’è, e quando la morte c’è, allora noi non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi né ai morti, perché in quelli non c’è, questi non sono più. Invece, la maggior parte ora fuggono la morte come il maggiore dei mali, ora la desiderano come requie dei mali della vita; ma il saggio non ricusa la vita, né accusa la morte; perché la vita non è per lui un male, né crede un male non più vivere. Ma come dei cibi non preferisce senz’altro i più abbondevoli, ma i più gradevoli; così non il tempo più durevole, ma il più piacevole, gli è dolce frutto.

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