A fine aprile scorso quattro giovani hanno perso la vita in un incidente stradale sull’autostrada del Brennero all’altezza di Aldeno. Si è parlato di scoppio di una gomma, di stress da discoteca, di droga e alcol, di velocità ma ora, a più di un mese dall’evento, resta soltanto il vuoto lasciato nei cuori dei familiari da quattro amici di Bolzano. Un po’ poco, non credete, per quattro vite appena iniziate? Ecco la proposta di Pino pubblicata su un giornale locale.
TRENTO. «È una guerra silenziosa di 8 mila morti l’anno in Italia e di 1000-1500 nuovi disabili: persone che diventano paraplegiche o tetraplegiche». Per Giuseppe Melchionna «succede troppo spesso». Per lui, ogni volta, è una ferita che si riapre. E un fallimento per il rispetto della vita. Giuseppe Melchionna da 24 anni vive su una sedia a rotelle a causa di un incidente stradale, di cui è rimasto vittima quando aveva 22 anni. Fondatore della cooperativa La Ruota, ha collaborato con La Rete, è coordinatore del settore disabili dell’ufficio catechistico della diocesi di Trento e nel 1999 ha fondato l’associazione Prodigio, di cui è presidente. Da dieci anni fa prevenzione agli incidenti nelle scuole: Borgo, Rovereto, Riva, Arco, Trento. Domani sarà al Buonarroti, poi andrà al Da Vinci.
Giuseppe Melchionna, qual è il suo impegno nelle scuole?
Faccio da quindici a trenta incontri l’anno. Vengo invitato soprattutto nelle prime classi delle superiori e alle medie. E mi hanno chiamato anche alcune parrocchie: Gardolo, Povo, Cognola, Mattarello e San Carlo.
Su cosa punta?
Io racconto soprattutto come è cambiata la mia vita. Quello che fai quotidianamente diventa dolore, difficoltà, necessità di dipendere dagli altri. Preferisco incontrare piccoli gruppi, una classe alla volta, perché così c’è maggior possibilità di dialogo. Ma non sempre è possibile. Anche il taglio dell’intervento non è sempre lo stesso. Se è l’insegnante di religione a invitarmi, allora posso fare anche un discorso cristiano: posso dire che la vita non è mia, ma è un dono di Dio, di cui io sono amministratore. Posso raccontare il mio cammino di fede, che è maturato nel tempo, che mi accompagna e che per me è fondamentale.
E i ragazzi, di solito, come reagiscono?
All’inizio restano un po’ sorpresi. Io non sono un vigile che insegna il codice della strada, né un insegnante che fa educazione stradale. Porto la mia testimonianza. E vedo che i ragazzi sono attenti.
Dalle domande, dagli interventi, cosa emerge?
Emerge che se un ragazzo o una ragazza hanno paura della velocità e chiedono a chi guida di andare più piano, fanno la figura dei fifoni. Per cui, spesso, anche se hanno paura, stanno zitti per non essere emarginati dagli amici. E, poi, emerge che è molto diffuso l’uso dell’alcol. Una ragazza a Borgo mi ha detto: «Io bevo perché mi dà sicurezza». Credo che da parte della famiglia e delle altre agenzie educative, come la scuola e la parrocchia, dovrebbe esserci un’azione più coordinata, una regia in questo senso. Anche per quanto riguarda il problema del bere. A me sembra che il bere sia sottovalutato. È un malcostume.
Ma, alla base, cosa c’è?
Alla base credo ci sia la mancanza di rispetto della vita propria e altrui. Si crede di essere in un videogioco che, quando finisce, si può ricominciare da capo. Ma la vita non è un videogioco. E qui ci sono responsabilità personale ed educative della famiglia.
Cosa intende?
I ragazzi non è che non conoscano il codice della strada, è che hanno in mano auto e moto troppo potenti rispetto alla loro esperienza. È un mix di fattori: automobili potenti, soldi e i genitori che li lasciano andare in giro tutta la notte, anche se sono molto giovani. Non voglio demonizzare le discoteche e neanche dare consigli ai genitori. Faccio solo delle osservazioni.
Come spezzare la serie degli incidenti?
Io porterei i ragazzi nei centri di riabilitazione. Quando ci sono stato io, a Imola, eravamo in 48. E io, che avevo 22 anni, ero il più vecchio. Credo che la testimonianza sia lo strumento più efficace. Poi sarebbe bello se altri disabili, come me, potessero andare nelle scuole. Io ho cercato di coinvolgere altre persone, ma non se la sentono. D’altra parte ci può andare solo chi ha accettato la propria condizione. E l’accettazione è la parte più difficile e costosa, che richiede anche anni.