Usa queste parole il regista, Kim Ki-duk, per descrivere la sua opera. Datata 2003, mostra la vita di due monaci, uno adulto e uno bambino, il “maestro” e il suo “discepolo”. Come si può intuire dal prolisso titolo, il susseguirsi delle stagioni come potente metafora delle tappe dell’esistenza umana rappresenta l’elemento peculiare della pellicola. Particolare enfasi viene posta sull’ambientazione, di cui vale la pena sottolineare la spettacolarità: le vicende si svolgono quasi interamente in un piccolo monastero galleggiante su un lago immerso nella vegetazione e circondato da montagne. Un luogo intriso di spiritualità, perfetto per vivere in simbiosi con la natura ed aspirare alla purezza interiore. In primavera il piccolo monaco viene educato al rispetto della vita di tutti gli esseri viventi. In estate, ormai adolescente, una ragazza irrompe nella sua realtà, fatta di preghiera e rettitudine, che è giunta al monastero per essere curata da un malessere interiore. I due coetanei si ritrovano attratti l’uno dall’altra e vivranno assieme le loro prime esperienze sessuali. Una volta ristabilitasi, la giovane fa ritorno a casa, lasciando nello sconforto il monaco che, non potendo sopportare la perdita della compagna, decide di abbandonare il suo maestro e seguire solo il proprio cuore. In autunno, da giovane uomo, fa ritorno al monastero. Resosi colpevole di omicidio, per gelosia, della propria amata, si affida nuovamente al suo mentore per cercare di redimersi prima di essere scovato e preso in consegna dalle forze dell’ordine. Nel mentre, durante l’assenza forzata del discepolo, l’anziano maestro si prepara al riposo eterno. L’inverno vede, come da previsione, il ritorno del monaco che, ormai adulto, è determinato a completare il suo addestramento spirituale. Il suo cammino non sarebbe completo se egli stesso, una volta ultimato il suo percorso, non avesse a sua volta un piccolo discepolo da allevare. E, infatti, il ciclo si ripete: ancora primavera dunque, di nuovo un maestro e il suo allievo.
Il regista sudcoreano realizza (e in parte interpreta) un’opera densa di spiritualità, che fa dell’aspetto estetico un perno fondamentale per il suo stesso svolgimento; l’evocativo paesaggio (la cui spettacolarità è testimoniata dall’uso sapiente di campi lunghi e lunghissimi) scandisce in maniera perfetta il succedersi delle stagioni, metafora del tempo concesso all’uomo su questa terra, mostrandoci i caldi colori primaverili, simboli di crescita e prosperità, fino alla staticità e al silenzio dell’inverno che tutto sembra logorare. Ma, se il percorso del singolo individuo è soggetto ad un’inevitabile epilogo, così non è per il ciclo della vita, sempre pronto a rinnovarsi incurante di ogni altra cosa. Il passato di artista e pittore di Kim Ki-duk si manifesta in sequenze e inquadrature atte a caratterizzare il film come un susseguirsi di “tavole” realizzate a regola d’arte, costantemente alla ricerca della purezza attraverso la preghiera, la concentrazione e la redenzione. Una tipologia di cinema particolare, che si distingue nettamente dalle produzioni di “massa” e che, a modo suo, tenta di comunicare qualcosa riguardo la natura umana; lo spettatore potrà apprezzare o meno una realizzazione come questa ma forse, al di là di tutto, la cosa più importante è sapere che esiste anche questo modello di filmografia, e non dimenticarselo.