Quando la cecità non è un handicap

Data: 01/02/09

Rivista: febbraio 2009

È possibile vivere normalmente con quattro anziché con cinque sensi? Ad esempio, come nel caso dei ciechi, senza l’ausilio della vista? Certo che lo è, ma è un dato di fatto che molto spesso si accoglie con qualche riserva, senza crederci fino in fondo.

A mancare è la fiducia nelle potenzialità del non vedente, troppo spesso considerato incapace “per natura” di affrontare le circostanze della vita. A cadere in errore sono molto spesso i vedenti, ma a volte anche gli stessi ciechi. Eppure le testimonianze di chi “ce l’ha fatta” sono tantissime. Nel volume curato da Mauro Marcantoni ed edito da Franco Angeli, “I ciechi non sognano il buio”, ne sono state raccolte ottanta.

Un campionario di esperienze, di vite vissute, di spaccati di realtà che dimostrano non solo quanto sia normale la vita dei ciechi, ma anche quanto siano alte le vette a cui i più determinati possono arrivare. “Vivere con successo la propria cecità”, come recita il sottotitolo del libro, è un obiettivo alla portata di tutti coloro che riescono ad organizzare la propria quotidianità in maniera efficace, avvalendosi dell’aiuto degli altri quando serve, ma non dimenticando mai che in molte occasioni è il cieco che deve dare un contributo sostanziale.

Un esempio tra i tanti è la questione del “lutto da immagine”: nel rapporto fra vedenti e non vedenti, il disagio non è solo del cieco che non vede, ma anche di chi, dall’altra parte, si ritrova impedito nella possibilità di trasmettere la propria immagine. Molte situazioni di imbarazzo sono generate da questo problema e possono essere facilmente superate se il cieco, ad esempio, guarda lo stesso negli occhi il proprio interlocutore, seguendo la direzione della voce, o impara ad usare in modo appropriato la mimica facciale e la gestualità.

Sono piccole strategie che servono a rendere più fluida la relazione con gli altri, sia in campo lavorativo che nei rapporti personali. Le ottanta storie raccolte nel volume svelano molte di queste strategie per costruire una “diversa normalità”. Possono infondere fiducia in chi ancora non ha trovato la strada per affrontare il suo handicap, ma forniscono anche agli altri, ai vedenti, un ricchissimo patrimonio di spunti e di riflessioni per comprendere meglio il mondo dei ciechi, un pianeta che ancor oggi, troppo spesso, risulta pressoché sconosciuto alla società dominata dalla “dittatura dell’immagine”.

Ottanta testimonianze di chi “ce l’ha fatta”

I protagonisti delle interviste raccolte nel libro sono persone che hanno ottenuto, nel loro campo, un successo personale (la costruzione della propria autonomia) e insieme professionale o umano: il raggiungimento di posizioni elevate nella scala sociale, un grado raffinatissimo di perizia manuale, o più semplicemente l’aver costruito attorno a sè una rete solida di affetti e di stima.

Nell’elenco figura anche qualche nome noto al pubblico, come quelli di Aleandro Baldi e Annalisa Minetti, cantanti di successo, protagonisti sul palco del Festival di Sanremo; ma anche moltissimi nomi meno noti di persone che invece meriterebbero, per il coraggio e lo straordinario impegno dimostrati, una speciale considerazione: avvocati, imprenditori, artigiani, religiosi, perfino artisti visivi e campioni sportivi.

Aleandro Baldi: “Il cieco non deve dimostrare di più”

Uno che ha saputo sempre affrontare i problemi della vita a viso aperto è stato senz’altro Aleandro Baldi. Nel libro racconta quella parte di sè che i suoi fans, sparsi nel mondo, non conoscono: gli anni trascorsi da bambino nell’Istituto per Ciechi di Reggio Emilia, la prima cognizione dell’esistenza di una frattura fra il mondo dei vedenti e quello dei non vedenti, la carriera musicale affrontata non come antidoto o come rivalsa rispetto alla propria condizione, ma come una naturale affermazione di sè e del proprio talento: “Non sentivo di dover dimostrare niente e nessuno con la mia musica”.

Contrariamente agli insegnamenti impartiti dagli insegnanti negli anni del Collegio, Aleandro Baldi capisce da adulto che “non è vero che i non vedenti siano costretti a dimostrare di più per essere considerati normali”.

Un approccio alla vita, e alla propria condizione, non competitivo ma qualitativo: il cieco è semplicemente una persona che gestisce in modo diverso la propria normalità.

Antonella Cappabianca, fotografa “per caso”

Può un cieco diventare un apprezzato fotografo? E com’è possibile che venga chiamato a disquisire di televisione in un importante programma radiofonico nazionale? Per Antonella Cappabianca, romana, la straordinarietà è una quotidiana normalità. Antonella, che è anche sportiva e docente in corsi di formazione, nella vita è una brillante responsabile amministrativa. Un curriculum lunghissimo, che farebbe invidia a chiunque. “Ma a me non sembra di fare niente di speciale. Cerco solo di fare bene le cose che mi piacciono”.

Alla fotografia arriva per caso, ed è subito successo: i suoi scatti trovano estimatori importanti, come Oliviero Toscani. Anche alla radio arriva quasi per gioco, chiamata da Gianluca Nicoletti, conduttore di Melog su Radio24, a commentare i programmi televisivi. Lei, una non vedente. Una presenza che non sfugge alla stampa nazionale: e quello della “cieca che fa la critica televisiva” diventa un piccolo caso, un bersaglio di facili e quasi morbose curiosità. Per questo, Antonella ci invita a stare alla larga dalle “etichette”, che sotto l’esibizione di una “straordinarietà da baraccone” celano vecchi e mai tramontati pregiudizi.

Ubaldo Cecilioni: tirare con l’arco contro gli stereotipi

Ci sono molti modi per sconfiggere i pregiudizi. Anche quello di imbracciare un arco e tirare. Ovviamente, senza l’ausilio della vista. E non per tirare a casaccio, come si potrebbe pensare: ma rastrellando successi e vittorie, fino a laurearsi campione italiano assoluto. Ubaldo Cecilioni, di Gubbio, racconta la propria storia con la semplicità di chi è abituato a confrontarsi con la propria menomazione fin dalla nascita. A tutt’oggi probabilmente unico arciere non vedente in tutta l’Umbria, Cecilioni è una figura di sportivo ben nota in Italia. Ma è anche una persona attenta alla propria formazione culturale, impegnata oggi al conseguimento della sua seconda laurea.

Forte anche della sua esperienza sportiva, Ubaldo Cecilioni sottolinea l’assurdità del fatto che spesso “il disabile non viene messo alla pari di un normodotato, non se la può giocare”. Riconoscimento della diversità, dunque, non dovrebbe significare affatto disparità di trattamento. L’esperienza reale invece ci dice che ancor oggi, tramite la pratica del collocamento obbligatorio – che Cecilioni ha studiato a fondo per la sua prima tesi di laurea – ai disabili vengono riservati inevitabilmente sempre gli stessi posti di lavoro. È così che tantissimi ciechi si ritrovano forzosamente avviati verso il lavoro di centralinista. Come se non potessero fare altro. Come centrare un bersaglio con una freccia, per esempio.

Rino Maenza: una vita dedicata alla televisione

Si può essere vincenti, da ciechi, anche in un settore dove l’immagine è tutto: come nel campo televisivo. E il caso di Rino Maenza, originario di Bari e bolognese d’adozione, noto produttore italiano di programmi per la tv. Una vita intera dedicata all’immagine visiva, ma anche intessuta di impegno civile e sociale. Nel 1974, ancora ragazzo, la prima avventura: con il regista Roberto Faenza e altri giovani bolognesi fonda la prima radio libera italiana. “Trasmettevamo da una roulotte sui colli bolognesi con un’antenna fissata su un manico di scopa” racconta. “Si chiamava Radio Bologna per l’Accesso pubblico, era una provocazione contro il Governo per la riforma della Rai”.

Alla fine degli anni Settanta, Maenza fonda Medianova, la sua casa di produzione tv, che ha proprio la Rai – curiosa nemesi storica – fra i principali clienti. Negli ultimi anni, Medianova si occupa del progetto Handy Channel, un canale tv dedicato alle problematiche della disabilità. “Io credo che a marcare il grado di civiltà di un Paese – commenta Maenza – sia la maniera in cui viene percepita dalla gente la diversità fra le persone”.

Mirco Mencacci: i sogni non sono solo immagini

Mirco ha quattro anni e mezzo quando un incidente nell’orto del padre lo priva della vista. Per qualche tempo continua a vedere la luce, poi solo il buio. Un buio che però non gli impedisce di continuare ad essere un bambino curioso. Prima scopre la passione per la musica, subito dopo viene rapito dal fascino del suono in generale, soprattutto quello che magicamente esce dalle radio o dagli altoparlanti del cinema all’aperto che sta proprio sotto il suo balcone.

La passione, crescendo, si trasforma in professione. Il raffinato udito di Mirco non solo supplisce alla mancanza della vista, ma gli permette anche di intraprendere una splendida carriera come montatore del suono. Oggi il suo talento è al servizio del cinema di Marco Tullio Giordana, di Ferzan Ozpetek o di Michelangelo Antonioni, tanto per fare alcuni nomi.

“Un buon film deve essere raccontato bene anche a livello sonoro: io sono abituato a vivere il mondo attraverso il suono – spiega Mirco – e penso di poter dare un valore aggiunto ad una storia grazie a questa mia caratteristica”. Perché il cinema, coma la vita e i sogni, non sono fatti di sole immagini, ma di un’infinità di suoni che spesso chi ha la vista rischia di ignorare.

Maria Liana Dinacci

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