In questi giorni è nelle sale cinematografiche un film molto particolare che affronta il tema della disabilità e i molti tabù che si celano dietro ad essa, con un approccio che sta riscuotendo notevole successo. In sole nove settimane dopo la sua uscita in Francia, avvenuta il 2 novembre 2011, è diventato il secondo film più visto dai francesi.
Devo premettere che non ho avuto ancora il piacere di andarlo a vedere al cinema, ma ne ho sentito parlare così tanto e bene, che ho maturato l’esigenza di riflettere sul ruolo coinvolgente di questo sceneggiato, che promette di diventare un’occasione unica per avvicinare l’opinione pubblica a temi delicati come la disabilità a l’immigrazione.
In ogni caso il film è ispirato ad una storia vera, quella di Philippe Pozzo di Borgo (autore di Le Second Souffle) tetraplegico dal 1993, ed il suo rapporto con Yasmin Abdel Sellou suo aiuto domestico. Si racconta dell’evolversi della improbabile amicizia tra Philippe, un tetraplegico ricco, e Driss, un giovane delinquente di origine senegalese, che viene assunto come badante personale del francese.
Al di là della trama, quello su cui vorrei concentrare l’attenzione è: se la disabilità, l’immigrazione e tanti altri temi sociali devono finire per forza sul grande schermo per essere considerati dal pubblico? O è ancora possibile una presa di posizione comune, concreta, tollerante, verso queste tematiche, che parta dal senso civico di ognuno?
Badate bene che la mia non è una critica a questo tipo di film. Anzi, sono convinto che ogni strumento di divulgazione svolga un ruolo di promozione fondamentale e di certo il cinema, nella storia, ha avuto modo di porsi certamente come lente di ingrandimento sui fatti e come spunto per movimenti e riflessioni.
Penso solo che in una società come la nostra, se da una parte esistono mezzi di comunicazione straordinari che possono raccontare storie ed esperienze ad un numero enorme di persone e quindi informare e rendere, in un certo senso tutti partecipi, dall’altra si insinua in maniera costante e inesorabile un sempre maggiore distacco del pubblico dalla realtà delle cose.
Quello che penso, è che stia sempre più mancando la capacità di ognuno di leggere e interpretare nel quotidiano i messaggi che riceviamo dalle grandi sale cinematografiche, nonché Tv e Internet. Si stà creando un divario tra quello che è il progresso tecnologico-comunicativo e la cultura necessaria per apprezzarlo e usarne tutte le infinite potenzialità.
Per fare un esempio concreto basta pensare al concetto di integrazione, affrontato nel film, che certamente riguarda, sia il migrante, quando si trasferisce in un nuovo paese, ma riguarda pure il disabile che deve lottare costantemente per integrarsi con una quotidianità difficile e disattenta rispetto alle sue esigenze.
Bene, per quanto riguarda il primo caso, il tema dell’immigrazione passa da un giorno all’altro a divenire, prima oggetto di disprezzo, fastidio, paura e poi, esempio acclamato di relazione tra persone con esperienze distanti, come raccontato nello sceneggiato in questione.
Pensiamo ad un’altra contraddizione, come ad esempio l’ancora poca accessibilità alle sale cinematografiche che per dimensioni ridotte o per il persistere di barriere architettoniche, rendono difficoltosa la visione dei film, se non impossibile. Speriamo che “Quasi amici” possa sancire una rinnovata considerazione del vivere insieme qualunque sia il colore della pelle e il tipo di abilità fisica.
Non si può parlare di contraddizioni senza invocare, credo, il problema della disinformazione e dell’ignoranza. Penso di nuovo al tema dell’integrazione dei migranti. Le notizie a riguardo spesso passano attraverso un bombardamento di informazioni da parte di molti mass media, che talvolta del sensazionalismo, fanno la loro unica ragion d’essere. Operano in questo modo senza rendersi conto, o forse fin troppo bene, che così facendo alimentano una cultura tesa a ricercare solo l’informazione semplice e cristallina. Quel tipo di “non cultura”, che un attimo prima ti fa prendere posizione contro il migrante nella vita di tutti i giorni, e un attimo dopo ti fa dimenticare il tuo malumore nei suoi confronti e ti permette di acquistare un biglietto per un film che ti hanno detto essere davvero commovente, ironico, innovativo e che racconta il rapporto tra un disabile e un immigrato.
Per fortuna esistono registi e attori e in generale un certo tipo d’industria cinematografica attenta a raccontare realtà poco conosciute e a farle apprezzare al grande pubblico, e meno male che esistono i teatri, i libri, Internet e i programmi televisivi di approfondimento. Quello che non va, invece, è sì l’informazione di bassa lega, ma soprattutto la mancanza di volontà di fermarsi a riflettere senza ricercare soluzioni preconcette. Se si guarda bene, alla fine, la responsabilità maggiore, è proprio la nostra e si manifesta nella pigrizia nel non ascoltare l’altro e al contempo nel sentirsi individui tolleranti e rispettosi solo perché abbiamo visto un film che fa riflettere.
Al mondo, ci sono tante persone realmente impegnate a correggere le storture della società in cui viviamo e questo film in un certo senso riporta l’esperienza di alcune di esse. Cerchiamo solo, dopo averne colto la profondità, di fare tesoro di quelle immagini, dialoghi e di divenire sempre meno spettatori e sempre più attori nel mondo che ci circonda.