Dopo tre lunghi mesi di lockdown le porte si sono aperte: là fuori c’è un mondo che aspetta. Si corre a riempirlo, a esplorarlo nuovamente, come se prima non si fosse mai vissuto. Non tutto, però, è come lo avevamo lasciato: dobbiamo indossare una mascherina, disinfettarci continuamente le mani, rispettare il distanziamento sociale… Ci viene continuamente ricordato che il Covid-19 non è sparito, non è stato sconfitto: è ancora tra noi e silenziosamente continua a contagiare.
Ecco che tutt’a un tratto il mondo là fuori inizia a fare paura. Vorremmo uscire, ma appena varchiamo la soglia veniamo travolti da un senso di terrore misto ad ansia e insicurezza. La domanda nasce spontanea: cosa ci sta succedendo?
Gli esperti la chiamano “sindrome della capanna” o “sindrome del prigioniero”. Migliaia sono le persone colpite in tutt’Italia da questa tremenda dimensione emotiva, che si manifesta in seguito a lunghi periodi di distacco dalla realtà.
Un malessere che sembra risalga al 1900, epoca della corsa all’oro negli Stati Uniti, durante la quale i cercatori erano costretti a passare mesi interi all’interno di una capanna. Dovendo concentrare la loro attività in determinati periodi dell’anno, vivevano uno stato di isolamento, seguito da sentimenti di paura, rifiuto di tornare alla civiltà, sfiducia nei confronti del prossimo, stress e ansia.
Quando passi molto tempo in un luogo, quello diventa il tuo ambiente di riferimento. Ti relazioni con quel contesto e il resto, piano piano, svanisce. Persino il tempo assume una dimensione individuale. Dentro tutto è a portata di mano e sei protetto, mentre fuori c’è il rischio e può capitare di tutto. Scatta un senso di autoprotezione potentissimo. Alla lunga si costituisce una realtà tanto personale da rischiare di rimanerci imprigionati. Esternamente tutto sembra abbastanza assurdo, ma non lo è.
La sindrome della capanna è un disagio che va compreso e che, per fortuna, secondo la psicologia, è passeggero. Il segreto, per superare questo ostacolo, è procedere per piccoli obiettivi: scegliere mete vicine, dove ci si sente più sicuri, ed uscire accompagnati, magari, da persone che sanno darci la carica, anche semplicemente tenendoci spensierati. Fuori, poi, scatta un processo di distrazione per cui si smette di lasciarsi trascinare dal vortice di pensieri negativi.
Ragionandoci, una volta affrontato l’esterno, ci si rende conto che uscire si può e, uscita dopo uscita, le distanze si allungano. Il coraggio alle volte è la risposta migliore alla paura di stare fermi. D’altronde la vita va affrontata, passo dopo passo.