Nel 1918, per la prima volta un gran numero di persone venne sottoposto al test di intelligenza (QI). Committente fu l’esercito americano che intendeva valutare le attitudini delle reclute da inviare sul fronte di guerra europeo. Da allora simili test sono stati somministrati con regolarità negli Stati Uniti registrando, anno dopo anno, un aumento costante del punteggio medio di QI fino ai 24 punti in più di oggi. Analogo incremento è stato poi riscontrato in tutti paesi dell’Occidente industrializzato, indipendentemente dal ceto, dalla residenza e dal reddito.
Le ragioni dell’aumento hanno varie spiegazioni, dalla migliore alimentazione alla maggior istruzione impartita ai bambini, dalla disponibilità di più tempo libero da dedicare a se stessi, ai videogiochi (incredibile a dirsi!) ed altri rompicapo in grado di stimolare ragionamento e concentrazione. Non ultimo, le dimensioni più piccole delle famiglie d’oggi: in generale in bambini cresciuti in piccole famiglie hanno punteggi più elevati di QI rispetto alle grandi.
Negli ultimi anni tuttavia si è sviluppata una tendenza tanto pericolosa quanto paradossale: via via che i bambini diventano più abili intellettualmente, la loro intelligenza emotiva, QE, diminuiva.
Una ricerca su vasta scala condotta interrogando genitori e insegnanti ha dimostrato come l’attuale generazione dei bambini, rispetto alla precedente, sia emotivamente più disturbata e caratterizzata da carenze crescenti nella sfera dell’intelligenza emotiva. Le cause ipotizzate: i piccoli, oggi, crescono generalmente più soli e depressi, facilmente portati collera, più indisciplinati, nervosi e disposti a cedere agli impulsi e all’aggressività.
Questo declino dell’intelligenza emotiva è un fenomeno diffuso in tutto il mondo. I segni più eloquenti sono rappresentati dalla crescente diffusione tra i giovani di problemi quali l’assenza di prospettive per il proprio futuro, l’alienazione, l’uso di droghe, la violenza, la depressione, i disturbi del comportamento alimentare e l’abbandono degli studi. Ciò si riflette con pesanti ripercussioni nelle relazioni interpersonali, in famiglia e sul lavoro.
Per questo, oggi, si parla sempre più spesso di Intelligenza Emotiva e di rischi individuali e sociali connessi al suo progressivo calo. È stato l’americano Daniel Goleman con due libri, “L’intelligenza emotiva” (1994) e “Lavorare con l’intelligenza emotiva” (1995) ad approfondire per primo il rapporto tra mente razionale e mente emozionale evidenziando il contributo di quest’ultima al benessere psicologico. Prima di allora le emozioni non avevano avuto particolari attenzioni dagli psicologi e un elevato quoziente intellettivo (QI) era considerato il presupposto primario per una vita di successo.
Dunque, ad un QI adeguato va affiancato anche un buon “quoziente emotivo” (QE). Ne fa parte la sensibilità, l’adattabilità sociale, l’empatia, la disponibilità, la possibilità di autocontrollo. Esso regola i rapporti con noi stessi e con gli altri ed è responsabile della nostra autostima, della consapevolezza dei nostri sentimenti, pensieri, emozioni e reazioni. La consapevolezza emotiva ci mette cioè in contatto con il nostro mondo interiore, con i nostri bisogni, le nostre aspirazioni, le nostre predisposizioni. Ci porta ad esprimere e realizzare le nostre potenzialità personali, a dare il meglio di noi stessi.
L’Intelligenza Emotiva è costituita da cinque abilità dalla cui valutazione – misurazione si ricava il Quoziente emotivo:
Un buon livello di queste abilità favorisce condizioni generali di equilibrio e successo. Al contrario, difficoltà emotive possono innescare situazioni di malessere, da lievi fino a disturbi mentali gravi.
Purtroppo, siamo stati educati infatti a non fidarci troppo delle nostre emozioni, accusate di manipolare le informazioni fornite dall’intelletto. Perfino la definizione “emotivo” è spesso usata in senso spregiativo, sinonimo di debole, incontrollato, infantile… In realtà emozioni e intelletto costituiscono due metà di un intero, la nostra mente. Il QI può aiutarci a capire ed affrontare il mondo ma sono le emozioni, il QE, a modulare il nostro agire. Chi ha una naturale predisposizione all’intuizione può avere la meglio sui chi conta essenzialmente sulla ragione. Non bastano, dunque, lauree 110 e lode per avere successo ma bisogna anche saper usare le proprie emozioni per capire meglio gli altri, per avere una più costante forza di volontà e per meglio conoscere se stessi.
Domanda: possiamo aumentare la nostra intelligenza emotiva? Sì! Infatti, se il nostro QI è in gran parte prefissato dalla nascita, la crescita emotiva è un processo di tutta la vita. Dobbiamo insegnare al nostro corpo a riappropriarsi della capacità di provare emozioni e sensazioni. Si tratta di allenare le nostre risorse emotive, spesso irrigidite alla stregua di un muscolo atrofizzato, in modo da potenziare la nostra auto-consapevolezza, conservare il nostro ottimismo, controllare più efficacemente i nostri sentimenti negativi, essere perseveranti malgrado le frustrazioni, cooperare empaticamente con gli altri, stabilire legami sociali… nell’obiettivo di conseguire un futuro più sereno.
Ecco l’importanza del QE, accanto al QI, e l’utilità di svilupparlo. L’alternativa è un mondo razionale dove si farà fatica a distinguere gli uomini dalle macchine. Non per nulla la ricerca di robot sempre più “umani” si è fermata, per ora, davanti alla difficoltà di insegnare le emozioni a questi aggeggi meccanici – elettronici dall’intelligenza fredda.