Racconto autobiografico di un’adolescente immigrata in Italia per scoprire altre realtà

Data: 01/02/13

Rivista: febbraio 2013

Era l’estate del 2007 quando arrivai in Italia. L’idea dell’immigrazione iniziò già nel 2005. Mi trovavo nel mio paesino che si trova nella regione Tadla-Azilal, esattamente la zona centrale del Marocco, a poca distanza dalle montagne Atlantiche.

Nel 2000 quando eravamo ancora a Tadla, la mia città natale, mia madre litigò con mio padre: era un momento molto difficile sia economicamente che moralmente.

Mio padre allora decise di partire per Tangeri dove passò più di un anno, mia madre così si ritrovò sola e chiese un aiuto alla sua famiglia: le consigliarono di trasferirsi nel paesino dove vivevano, loro ci avrebbero accolti.

Per me e mia sorella non era affatto piacevole questa scelta.

A noi quel villaggio non piaceva. Eravamo felici solo durante le vacanze, quando la zia e i quattro cugini tornavano in patria dall’Italia con tanti regali, ma soprattutto ci piaceva quando potevamo visitare le città del Marocco assieme a loro: lo zio aveva la macchina e molti soldi. Infatti rinnovavano ogni anno la casa e acquistavano sempre nuovi mobili.

In città, invece, ero felice: durante il mio primo anno di elementari i miei amici erano aumentati, infatti invitavo anche i compagni di classe che abitavano negli altri quartieri. Assieme giocavamo, ballavamo, ci divertivamo ad improvvisare recite e, ogni tanto, si andava al parco: non era un parco giochi come quelli italiani non c’erano panchine, altalene e giochi vari (né tappeti di sicurezza) ma era un grande giardino abbandonato.

Eravamo dei bambini forti, ai nostri genitori non chiedevamo mai di acquistare giocattoli, perché ce li costruivamo noi con la terracotta, con bastoncini di legno o con rami degli alberi d’olivo.

Dovevo lasciare tutti questi amici e le avventure fatte assieme, la mia fantastica classe e la mia ammirata maestra.

Mia madre aveva compreso la nostra sofferenza e noi avevamo compreso la sua senza che nessuno di noi esprimesse i propri sentimenti.

Nel paesino la zia ci offrì la sua bellissima casa che, per fortuna, era vicina alla scuola che frequentavamo io e mia sorella. Era una struttura con quattro aule e cinquanta alunni per ogni classe.

In città ero abituata al bello, al nuovo e ai compagni profumati. Lì, invece, i ragazzini che erano in classe con me avevano un odore meno gradevole degli altri infatti spesso le loro famiglie possedevano animali come mucche, asini, cammelli e cavalli. Persino uno di loro faceva un’ora di strada tutte le mattine con un asino che, durante la lezione, rimaneva legato dietro l’aula nel cortile della scuola.

Ora che ripenso a questi episodi mi viene da sorridere ma anche da piccola ho avuto la fortuna di affrontare con un sorriso anche i momenti più duri della mia vita. Così questi nuovi compagni non si sono mai accorti della mia rabbia nei loro confronti causata dal trasferimento e non direttamente da loro. Mia madre chiese alla scuola di metterci nei primi banchi e pretese che nessun professore osasse darci botte sulle mani con bastoni che utilizzavano sugli altri ragazzi. Per noi era ingiusto, ma secondo questi insegnanti era il metodo più efficace per far sì che gli alunni facessero i compiti e che rispondessero alle interrogazioni correttamente. Ma mia madre infranse questa regola: non le importava nulla di quello che poteva pensare il preside della scuola.

Gli anni passavano e sono riuscita a trovare qualche amica ma potevo giocare con loro soltanto durante la ricreazione, una volta che l’orario scolastico terminava le amiche le vedevo il giorno dopo.

Ho trascorso molto tempo della mia infanzia a ragionare e a pensare, mi ero anche creata un amico immaginario con cui giocavo nel tempo che trascorrevo fuori da scuola.

Mia madre iniziò a lavorare e ogni pomeriggio io e mia sorella eravamo sole a casa e sbrigavamo le faccende domestiche, compreso lo studio.

Nell’estate del 2004 mio padre tornò al villaggio ed io e mia sorella dall’insoddisfazione e dalla rabbia gli chiedevamo spesso di andarcene da lì. Mia madre si preoccupò, aveva il terrore che lui ci portasse via ma, nel momento in cui ce lo propose seriamente, noi rifiutammo.

Il senso della responsabilità cresceva in noi, la nostra decisione era stata ragionata e soprattutto presa con consapevolezza e correttezza nei confronti di mia madre che fu l’unica che lottò in prima persona affinché non ci mancasse mai niente.

Nel 2007 avrei dovuto traslocare in un’altra città del Marocco, più grande, per frequentare la terza media. Fino all’estate di quell’anno, i miei genitori continuarono ad incoraggiarmi per immigrare dalla zia in Italia. Per loro lo studio era essenziale, ma per vari motivi scelsero questa opzione, in realtà era stata presa con tanta leggerezza.

Per esempio secondo loro trasferirsi in Italia era meno rischioso e pericoloso che andare a studiare a Casablanca. Ci fu anche una grande influenza da parte della famiglia, infatti, una percentuale altissima di figli e nipoti erano immigrati sia in Europa sia in Nord America, importante, infine, fu la zia che accettò di ospitarmi a casa sua a Sarche.

Il 13 ottobre 2007 alle ore 19 arrivai in Italia, precisamente a Trento. La zia arrivo a prendermi, mi tenne la mano e mi disse di correre perché avremmo preso l’ultima corriera che partiva per Sarche. Durante il tragitto osservai attentamente e in silenzio le strade, il paesaggio e le persone, vi assicuro che per mesi la mia più grande sofferenza fu non capire la lingua e quindi non poter comunicare con le persone del posto.

Questo mi fece sentire diversa ed isolata dal mondo; ora che ho superato il problema della comunicazione non mi spiego come facciano quelli che rimangono per anni all’estero senza imparare la lingua del posto.

Il giorno dopo mi svegliai con la voce di un turista francese che parlava, era strano per me che ero abituata a svegliarmi con il canto del gallo.

Aprii la finestra e lo salutai. Da lì si vedeva un bellissimo panorama delle montagne. Era talmente affascinante che ho disegnato correttamente questo scenario. L’avevo poi spedito come un pensierino originale a mia sorella con scritto sul retro del foglio quanto mi mancava e quanto il paesino era bello. Già i primi giorni chiesi alle mie cugine di portarmi a visitare il paese, ammiravo spesso il Castello Toblino e il fiume Sarca.

All’inizio questo luogo mi trasmetteva energia finché non diventò una gabbia, un’abitudine insopportabile.

Un po’ prima delle feste natalizie, iniziai ad stufarmi della pesante situazione che si era creata in casa.

Non sapevo esattamente cosa potevo fare ma la situazione mi preoccupava, non era affatto serena. Telefonavo ai miei genitori piangendo e raccontavo che la situazione non era quella che si immaginavano, alla seconda chiamata mi chiesero di tornare, mi dissero che loro, i miei amici e i professori erano dispiaciuti per “il mio viaggio”.

Quella notte la passai in bianco, dovevo scegliere se continuare con questa avventura iniziata malapena o tornare indietro.

Mi sono lasciata guidare dal destino e sono rimasta qui. Sono stata tolta all’affidamento della zia e tramite il servizio sociale ho iniziato a vedere la vera Italia. Ho avuto la possibilità di frequentare la scuola con costanza e sto terminando l’ultimo anno della scuola superiore dopo diverse intense estati di corsi e di lavoretti stagionali.

Ho avuto l’opportunità di visitare le città più belle dell’Italia: Venezia, Roma, Milano, Bologna e Perugia e anche paesi dell’Europa: Irlanda, Germania e Spagna.

Non solo, ho incontrato amici da tutti i continenti che mi hanno fatto conoscere le loro culture: probabilmente in Marocco avrei avuto meno occasioni di relazionarmi con tradizioni così diverse.

Da questo viaggio sto imparando quello che nessun corso mi avrebbe mai insegnato!

precedente

successivo