Resoconto psicologico di un delitto

Data: 01/02/07

Rivista: febbraio 2007

“Un resoconto psicologico di un delitto”: Dostoevskij definiva così il suo capolavoro, Delitto e castigo, portato in scena al Sociale di Trento dal 10 al 15 gennaio dalla compagnia Glauco Mauri – Roberto Sturno, fedeli a questo manifesto di poetica e rispettosi del ritratto che l’autore del testo voleva dare dell’uomo, come di “un mistero difficile da risolvere” ma che ha comunque sempre cercato di comprendere, “per essere un uomo”, anche attraverso la costruzione delle sue opere.

Il sipario si apre e si accendono le luci sul protagonista, il giovane Raskolnikov. Per quasi due ore siamo risucchiati dal labirinto oscuro dei suoi pensieri: sul palco, a esasperare il tormento di un assassino in preda all’angoscia e al terrore, all’attesa di dover rendere conto dell’atto compiuto, è tratteggiato una sorta di labirinto stilizzato (che ricorda la scenografia di Dogville, di Lars Von Trier). Dall’alto, a seconda del cambio scena, vengono calati dei pannelli simili a solenni colonne di pietra a incastro, che a tratti nascondono o svelano, per creare un effetto di claustrofobia, un’atmosfera visionaria e simbolica in cui tutto rimanda al caos dell’interiorità.

Non c’è spazio per la fuga, per la libertà, per la pace dei sensi…neanche per noi spettatori, obbligati dalla forza delle parole, dalla pena e attualità dell’uomo-Raskolnikov, a percorrere la sua stessa strada verso gli abissi bui e sconosciuti dell’uomo stesso.

Seguiamo la storia attraverso dei capitoli, brevi frasi proiettate sopra la scena, indizi di ciò che dobbiamo aspettarci avvenire sul palco. Tuttavia la storia, l’assassinio di una vecchia e di sua sorella per mano di un giovane, il tormento che lo accompagna prima della confessione al giudice Porfiri già sospettoso, e a ragione, della sua colpevolezza, passa quasi in secondo piano. L’intrigo che prevale non è quello del plot narrativo, bensì l’attanagliarsi, in una confusione che conduce pressoché alla pazzia, dei pensieri e dei gesti dell’assassino, via via più nervosi, paranoici, suscettibili. Punzecchiato dall’atteggiamento del giudice, sarcastico ma intelligente perché volto a portare il colpevole alla confessione spontanea, Raskolnikov perde il controllo di se stesso, della città in cui vive e che sembra a suo parere spiarlo e accusarlo. Delirante si affida per necessità alla dolce Sonja (una giovane prostituta per dovere di aiuto alla sua famiglia), anche se il suo destino sarà quello di espiare la sua colpa in una profonda e angosciante solitudine.

Forte e convincente la presenza scenica degli attori, in sala tanti giovani delle scuole per un tutto esaurito.

Unica debolezza (ma peculiarità del testo originale): l’insensatezza del delitto, specchio fedele dell’insensatezza dell’uomo, accettata attraverso il più nobile dei castighi, la sofferenza. Il percorso di Raskolnikov è una sorta di indagine dell’io alla scoperta di un senso alle sue azioni e alla sua esistenza, un mettersi alla prova, un comprendersi che si fa tuttora attuale e coinvolgente.

Un invito, per dirla alla Galimberti, alla “qualità del sentimento”: se davvero il teatro mantiene dalle sue origini una funzione catartica, ripensiamo l’opera come un ammonimento. Nella lotta tra bene e male possiamo far prevalere il bene se non diamo solamente libero sfogo all’intelligenza “cinica, lucida e distruttiva” ma se “educhiamo noi stessi al sentimento, unico strumento in grado di compiere questa distinzione”.

Forse è proprio questo il segreto del successo dell’opera, spiegato dallo stesso Mauri: “i giovani sono affascinati dai temi della ribellione, della giustizia, della morte”, raccontati da una storia scritta più di 100 anni fa, ma che fanno ancora pensare.

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