Riabilitazione ed integrazione

Autori:Redazione

Data: 01/08/01

Rivista: agosto 2001

Vivace il dibattito sui quotidiani di questo inizio estate sul perdonismo o meglio sulla necessità-opportunità di urgenti e rapide ri-abilitazioni/re-integrazioni dei minori responsabili di gravi reati o di efferati omicidi. Una macchina complessa di giudici, psicologi, operatori, comunità e centri sociali convenzionati viene quotidianamente attivata ad hoc per recuperare al più presto alla normalità chi, in un apparentemente singolo episodio, sembra averla ampiamente superata.

La problematica non è solo italiana e anche altrove si giunge presto a programmi di protezione, a nuova identità per gli assassini e ovunque c’è chi si schiera per il recupero a tutti i costi e chi per un lungo periodo di detenzione.

In realtà, piuttosto che un fatto squisitamente civico-culturale-giuridico-morale, il nucleo forte di tali proposizioni sembra essere il problema economico poiché alla distanza i costi di lunghi periodi di reclusione (seppur in forma adeguata al minore) risulterebbero insostenibili e meno sicura infine l’integrazione.

Ma vi è un ulteriore aspetto che non emerge facilmente nelle diverse ed opposte dichiarazioni.

L’atto delittuoso viene sempre guardato emotivamente e presto emotivamente calmierato attraverso una digestione fondata sulla razionalizzazione vuoi giuridica, detentiva, socio-psicologica del fenomeno, scomponendolo in elementi più comprensibili e sempre meno rutilanti. Il salto nell’anormalità viene piano piano spiegato nei dettagli e così il delitto, l’elemento folle, orripilante, insano del personaggio in questione viene ridotto al semplice gesto anziché alla persona inadeguata nella sua interezza. E il gesto, la pazzia si circoscrive così nello spazio e soprattutto in un tempo tecnico definito.

Il minore o il gruppo di ragazzi rei confessi ha, oppure hanno, dunque agito in un momento di follia, di incapacità di intendere e di volere. La malattia mentale di quegli individui riguarda quello specifico atto, quello tempo preciso definito e finito e non più la loro storia di vita, il loro agire nel sociale.

Questa idea arbitraria, quanto ridicola, di una malattia mentale e relazionale, acuta istantanea, una sorta di caduta di stile, di flash patologico (anziché emersione di problematiche ad elaborazione complessa), è oggi invece quella prevalente e giustifica qualsiasi forzoso e precoce processo di perdono, recupero e reintegro accelerato nella società del responsabile, anche perché la probabilità di un nuova manifestazione di follia è minima mentre il ritorno produttivo è assai probabile.

Dato per scontato che non serve punire ad oltranza ci si dovrebbe comunque accertare della qualità mentale di questi soggetti e procedere ad una lenta, quanto graduale verifica della reale condizione che li ha condotti ad agire in maniera così disastrosa alle frustrazioni.

In realtà il giudizio psichiatrico di salute e di malattia è molto opinabile. Gli esperti dissertano ma nessuno sarà mai in accordo perfetto con altri cosicché il giudizio di integrabilità diviene un giudizio di opportunità anziché di certezza. La soluzione riabilitativa vera (il percorso medico obbligato di recupero alla normalità) anche in questi casi è un’idea più che una procedura standardizzata a causa delle difficoltà di monitoraggio della complessità comportamentale di un individuo, anche normale.

Questo momento primario (la riabilitazione, medica) viene a collassarsi a favore dell’integrazione (reinserimento) che giocoforza diviene l’elemento obbligato anche perché l’unico visibile e pertanto autocertificantesi.

Una situazione simile ma decisamente più paradossale la si incontra quando si parla di malattia psichica in generale.

Forse sarebbe il caso di chiedersi perché non esista altrettanto rapidissimo, macroscopico ed efficiente impegno strutturale, sanitario e sociale nella riabilitazione-integrazione di bambini, minori, adulti sofferenti di problematiche cognitivo-relazionali o di malattie border-line psicologiche e psichiatriche.

I loro numeri sono più rilevanti e il costo sociale della loro non riabilitazione è enormemente più elevato. Gli interventi anche per questi ultimi sono riabilitativi e coordinatamente di integrazione. Esiste in tale ambito un identico colassamento del momento terapeutico medico a favore di quello di una pseudo-integrazione panacea riabilitativa medica e didattica (inserimento precoce nella scuola e in genere senza alcun criterio di controllo o programma condiviso).

In questo caso però la riabilitazione in senso nobile del termine, esisterebbe; è conosciuta, se ne conoscono gli standard, le possibilità di esatto e puntuale monitoraggio ma non esiste il personale che le pratica. Gli interventi sono solo sulla carta. Pochi li ottengono perché rarissimi gli operatori competenti e che li applicano.

Nessun giudice di minori in tali casi però si preoccupa d’ufficio se vengano attuati i programmi di terapia, di riabilitazione e integrazione dettati dalle leggi; nessuno parla di questa discriminazione al bar o sulla spiaggia. I pazienti di cui parlo non hanno ucciso la madre, massacrato il fratello assieme al fidanzatino, o squartato una suora con l’aiuto delle amichette.

Loro sono soli, sono ammalati e ritardati mentali, già affidati alla famiglia, senza programmi terapeutici, senza aiuti, condannati alla reclusione in loro stessi o in strutture ove nasconderli a vita, accolti in esse precocemente o alla fine casuale del nulla riabilitativo e terapeutico. Perché sappiate che lasciati senza risposte riabilitative e reintegrative corrette essi peggiorano. Fin da piccolissimi questi nostri figli, fratelli, concittadini ammalati non sono soggetti sociali ma oggetti di professionisti spesso incuranti.

Questo succede perché nella mentalità comune queste malattie sono dette croniche intendendole così irreversibili. Eppure scientificamente la cronicità è una pura trasformazione d’organo, sia macro che microscopica che segue e si differenzia dalla forma acuta e non ha alcuna relazione con il concetto di tempo (cronico in medicina non significa che dura nel tempo o che è incurabile).

Perché nessuno spiega alla gente, così civile e sensibilizzata sugli episodi acuti della follia omicida, che ammalati cognitivi relazionali cronici si diventa e mai si nasce?

Si diventa ostili al malato psichico perché non lo si riconosce a prima vista, perché inadeguato nel comportamento, perché non in ascolto eppure date le stesse qualità soggettive troviamo mille ragioni per giustificare simili caratteristiche, in un ragazzo efferato assassino (subito disponibili a comprenderne le motivazioni, ad aiutarlo) ma ci si allontana rapidamente da una dodicenne con ritardo mentale che sbava.

Questo illogico senso della vita dovrebbe far riflettere e molto.

Dr. Tiziano Gabrielli, Presidente Genitori in Prima Linea
Dott. Laura Nardin, Giudice di Pace, Presidente dell’Associazione Io

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