Al giorno d’oggi, purtroppo, le donne non ricevono ancora la dovuta considerazione in medicina. Ci racconta la sua esperienza Tara Riva, giovane mamma, che ha convissuto con il dolore cronico per molti anni prima di ricevere cure appropriate, sperimentando i sistemi sanitari di Italia, Inghilterra, Belgio e Svizzera, dove ha vissuto per studio e lavoro.
Tara, ci racconteresti la tua storia?
Nel 2012, a vent’anni, ho avuto la prima cistite dolorosissima ed emorragica poi, per circa un anno, una recidiva ogni tre settimane trattata con il classico antibiotico. La situazione peggiorava sensibilmente dopo i rapporti sessuali e questo mi creava forte disagio e imbarazzo. Il dolore non mi permetteva di dedicarmi agli studi serenamente, dovevo andare in bagno frequentemente e soffrivo a mantenere la posizione seduta. I primi anni ho consultato svariati dottori, tra cui una psicologa, ma tutti finivano per declassare le mie preoccupazioni a meri capricci adolescenziali. A furia di prendere antibiotici e subire cistiti ho sviluppato vulvodinia (dolore cronico alla zona vulvare) e contrattura del pavimento pelvico: prima diagnosi specialistica avuta su mia iniziativa, scoprendo una onlus online. Mi sono poi rivolta alla dottoressa Di Maria, competente fisioterapista del pavimento pelvico, e i buoni risultati faticosamente ottenuti mi hanno fatto ben sperare. Qualche anno fa, mentre vivevo a Bruxelles, ho avuto una delle recidive più forti e assumevo antidepressivi per il dolore prescritti dal medico. Dalla gravidanza la situazione è diventata intollerabile.
Fino al momento della svolta…
Esatto. Di lì a poco mi sono trasferita in Svizzera, a Baden, dove il primario dell’ospedale è specializzato in vulvodinia. Il medico è rimasto scioccato dal fatto che non mi avessero mai fatto i dovuti accertamenti e mi ha proposto di procedere con una laparoscopia esplorativa, per escludere l’endometriosi. Io ho accettato immediatamente e dall’intervento è emerso tutt’altro: avevo un indebolimento dei legamenti dell’utero che lo rendevano ipermobile, facendolo premere sulla vescica. Riscontra anche una malformazione genetica uterina mai notata dagli specialisti – neanche durante il cesareo – che mi aveva fatto condurre una gravidanza a rischio senza saperlo. Con l’operazione ho trovato un po’ di pace ma continuo a chiedermi perché non mi abbiano mai ascoltata, mi sarei risparmiata dieci anni di dolore cronico.
Hai mai sentito il desiderio di “gettare la spugna”?
Appena avevo un po’ di sollievo dal dolore cercavo di dimenticare il problema. Mi accontentavo perché pensavo che nessuno potesse aiutarmi sebbene mi sia spesso sentita dire dagli specialisti che il mio era solo un tentativo di cercare attenzioni, che mi piaceva “giocare a fare la malata”. Andare da un medico era ogni volta una ferita che si riapriva. Un giorno però ho pensato a tutto quello che avevo subìto e mi sono chiesta: se uno specialista dicesse a Daphne, mia figlia, le stesse cose che alcuni dottori hanno detto a me, lo accetterei? Ho deciso che avrei lottato ogni giorno per lei e avrei dato l’esempio.
Quanto ha inciso questa condizione sulla qualità della tua vita?
Quando si sono presentati i primi sintomi ero all’università e ho rinunciato all’Erasmus. Ho poi fatto altre esperienze all’estero ma ogni volta che mi spostavo la prima cosa su cui mi informavo era l’accessibilità della fisioterapia del pavimento pelvico. Tuttora è così. Negli anni mi sono assentata molte volte dal lavoro per il dolore e la vulvodinia non è tuttora riconosciuta. Per molte patologie femminili esiste un vero e proprio tabù e spesso le lavoratrici fanno fatica a parlane sul luogo di lavoro. Essere donna è ancora estremamente penalizzante nella società.
Che consiglio daresti a chi vive una situazione simile e cosa pensi andrebbe fatto a livello pubblico?
Se senti forte dolore e questo diviene parte integrante della vita quotidiana, non normalizzare la cosa. Raccomando di consultare i siti delle onlus che si occupano di patologie simili (es. cistite.info) e presentano liste di medici convenzionati. A livello statale c’è bisogno di rendere accessibili le cure, inoltre è essenziale parlare nelle scuole: occorre rivolgersi direttamente ai giovani – maschi e femmine – e fornire loro le corrette informazioni sin dall’adolescenza, ben il 15% delle donne soffre di vulvodinia e una diagnosi tempestiva può aiutare molto.