START MY GAME

Data: 01/02/22

Rivista: febbraio 2022

Negli ultimi anni il mondo dei videogiochi è entrato nella vita quotidiana di moltissime persone. Nel 2021 molti giovani hanno utilizzato questo mezzo per rimanere in contatto con i propri amici nel mezzo della pandemia. Non dimentichiamoci, però, che dietro l’attività ludica c’è sempre una finalità educativa. Lo sanno bene i ragazzi di Il Ponte, cooperativa sociale di Rovereto che ha messo in piedi il progetto Start My Game, grazie al quale ragazzi con autismo ad alto funzionamento o con problemi di tipo familiare possono incontrarsi per giocare assieme e creare nuovi legami sociali. Abbiamo parlato con Chiara Pedrotti, coordinatrice del progetto My Start, e con Samuel Baruzzi, l’educatore che si occupa di accompagnare i ragazzi in questa esperienza.

 

Ciao, vi piacerebbe introdurre ai lettori cos’è Il Ponte e come nasce il progetto Start My Game?

Chiara Pedrotti: Il Ponte nasce nell’85 come cooperativa sociale e centro diurno per la disabilità. Negli anni si è evoluto e sono nati attorno diversi progetti. Contiamo quattro sedi per quanto riguarda i centri educativi rivolti alla disabilità adulta. Negli anni ci siamo specializzati sui disturbi dello spettro autistico, in collaborazione anche con l’Università di Trento. Nel 2014 è nato My Start, un servizio rivolto alla fascia dei più giovani. Mette in campo diversi progetti di tipo psicoeducativo rivolti a ragazzi con autismo, disabilità, ma anche disturbi dell’apprendimento. Un paio di anni fa, in collaborazione con la comunità Murialdo, è nata l’idea di Start My Game.

Perché utilizzare proprio i videogiochi per questo progetto?

Samuel Baruzzi: Ho visto che Il Ponte voleva proporre qualcosa di innovativo. Durante gli anni del Master ho svolto una tesi in cui mi occupavo dell’uso terapeutico dei videogiochi. Chiunque può trarre un beneficio dall’utilizzo di un videogioco. In un videogioco come League of Legends, ad esempio, c’è bisogno di coordinarsi e cooperare. Dev’esserci una comunicazione efficace all’interno del gruppo, ma devo anche essere individualmente efficace per interagire in maniera concreta. Per quanto riguarda l’autismo all’interno di questo discorso, parliamo perlopiù di autismo ad alto funzionamento. Il gioco è un algoritmo ed è sempre conoscibile allo stesso modo da ogni partecipante. Se agisci bene, ottieni una ricompensa o un successo. Tutti quanti possono crescere in questa circostanza, anche al di fuori del contesto videoludico. Questo avviene anche a distanza, ma ovviamente quando i ragazzi giocano in presenza tutti assieme, l’effetto è ancora più amplificato.

Avete dei giochi particolari che prediligete quando organizzate gli incontri di Start My Game?

Samuel: La prima cosa che abbiamo fatto è stato chiedere ai ragazzi quello di cui hanno voglia. I gruppi sono cambiati nel corso dei due anni del progetto. Sono cambiati anche i tipi di giochi. Uno è rimasto trasversale nel corso del tempo ed è apprezzato da tutti. Parlo di Minecraft. È stata una scelta che hanno fatto loro comunitariamente. Non c’era nessuno che non volesse giocare a quello. Si tratta di un gioco aperto e senza un vero obiettivo. Sollecitando quali sono le motivazioni individuali di ogni singola persona, si può farli giocare da soli o farli cooperare. Dopo un po’ di mesi chi sceglieva di agire da solo lo tendeva a fare perché voleva apportare un contributo all’operato degli altri. Dare loro l’idea di coordinamento e di cosa diventa un gruppo quando si agisce assieme è stato fondamentale. Fare esperienza in maniera alternativa è fondamentale per capire come vuoi agire per te stesso e con gli altri. Devi guardare qualcosa dentro di te. Quando sei autistico può essere parecchio difficile. Però, quando ti piace stare in un gruppo inizi a guardarti intorno e capire cosa vuoi fare e come agire. La crescita diventa trasversale. A un certo punto i ragazzi si sono anche incontrati per conto loro per giocare e si stringevano ei legami di amicizia all’infuori del gruppo. Lo sapevamo fare anche prima, ma dopo l’esperienza della pandemia abbiamo imparato a sperimentare anche questo modo nuovo di condivisione.

Secondo te negli ultimi anni si sono fatti dei passi avanti per quanto riguarda la rappresentazione delle diversità nell’industria dei videogiochi? E per quanto riguarda le opzioni di inclusività?

Samuel: Penso che con i progressi della tecnologia questo arrivi di natura. Col progredire della tecnologia si possono includere vari tipi di diversità. Dal contrasto per i daltonici fino ad arrivare ad altre integrazioni. A livello culturale, sociale e storico i videogiochi cercano di essere quanto più inclusivi possibile. Uno dei fattori più importanti dei giochi usciti negli ultimi anni è proprio la personalizzazione del nostro avatar. Per quanto riguarda invece l’effetto dei videogiochi sulle disabilità come la dislessia, mi piacerebbe ad esempio citare lo studio di una mia collega, Angela Pasqualotto. Angela ha creato un videogioco in collaborazione con l’Università di Trento. In questo suo studio è stato dimostrato che, superando i vari passaggi del videogioco che ha creato, le funzioni esecutive dei giocatori aumentavano.

precedente

successivo