Il maratoneta di Borgo Valsugana rappresenterà l’Italia alle “olimpiadi dei trapiantati” in programma in Australia dal 15 al 21 aprile prossimo
Qua #nonsimollaunchezz. Stefano Dalvai lo ha promesso a se stesso quando nel 2014, a causa di una leucemia mieloide acuta particolarmente aggressiva, è stato ricoverato in ospedale per effettuare un trapianto di midollo osseo. Classe 1988, di Borgo Valsugana, Dalvai negli anni successivi ha scelto di onorare il suo motto in un modo molto speciale: partecipando a maratone e gare di trail running per sensibilizzare sull’importanza della donazione di organi, sangue e tessuti. Un impegno che si coronerà dal 15 al 21 aprile prossimo, quando lo sportivo volerà a Perth in Australia con l’Associazione nazionale emodializzati dialisi e trapianto (Aned) per vestire la maglia della nazionale italiana ai 23° World Transplant Games, le “olimpiadi” degli atleti trapiantati.
Stefano, quando sei stato diagnosticato avevi solo ventisei anni. Come è cambiata la tua vita da quel momento?
Dopo il trapianto, è cambiato il mio modo di vedere le cose. Ho imparato ad apprezzare la bellezza della quotidianità e ad affrontare con maggiore determinazione gli inevitabili momenti di difficoltà.
Come mai hai scelto di dedicarti alla corsa?
Ho sempre apprezzato lo sport e, fin da bambino, giocavo a calcio. Dopo il trapianto, ho deciso di iniziare a correre per infondere fiducia in chi, in un letto d’ospedale, sta combattendo la stessa mia battaglia. Voglio dimostrare ai malati e alle loro famiglie che come ce l’ho fatta io, possono farcela anche loro. Il viaggio è faticoso, ma non bisogna arrendersi senza lottare.
Quanti chilometri corri di solito?
Circa cento chilometri a settimana. Se possibile, mi alleno tutti i giorni, perché la costanza è fondamentale.
Quali sono le gare più significative a cui hai partecipato?
La sfida più importante di tutte è stata superare il trapianto. È stato come nascere una seconda volta, ma per qualche anno poi la strada è stata tutta in salita. A livello di gare, invece, direi che una delle più belle è stata la cento chilometri del Passatore, tra Firenze e Faenza. L’ho affrontata un mese dopo aver avuto la polmonite e sono rimasto soddisfatto. Quest’anno vorrei ritentarla partendo da una migliore forma fisica. Bello anche il piazzamento al quinto posto assoluto alla cinquantasette chilometri di Trieste e il “Dolomiti Brenta Trail”, sessantaquattro chilometri con 4.600 metri di dislivello in una cornice panoramica meravigliosa. O ancora, l’ultima gara del 2022, i campionatati italiani di corsa in montagna di lunga distanza ad Arezzo, che mi hanno anche permesso di visitare luoghi che non conoscevo. E adesso non vedo l’ora di partire per l’Australia con la nazionale trapiantati. Al di là del risultato sportivo, sono felice di avere occasione di confrontarmi con l’esperienza dei trapiantati che vivono in altri Paesi e di accendere un riflettore sull’importanza della donazione.
A proposito di sensibilizzazione, assieme alle tue bambine Adele e Vittoria, sei testimonial della Fondazione Città della Speranza…
Sì, da quando corro con la maglia della nazionale, ho aperto una campagna di raccolta fondi per finanziare parte dell’avventura australiana e per supportare la Città della Speranza, che accompagna i piccoli pazienti onco-ematologici e le loro famiglie. L’ho fatto perché volevo regalare un po’ della serenità che hanno le mie gemelline anche ai bambini meno fortunati. Io ho affrontato il dolore pesante della malattia da adulto, a maggior ragione credo sia fondamentale sostenere la ricerca pediatrica e alleggerire le giornate dei genitori che si trovano in questa situazione e dare un po’ di sollievo ai loro figli in un momento per loro buio.
A che punto siamo in Italia in materia di donazione?
In Trentino i numeri sono buoni, ma in generale, direi che in Italia – comparandoci con altri Paesi europei – si potrebbe fare di più. Sinceramente, credo nelle potenzialità della nostra società e perciò penso che si debba sforzarsi di portare le persone a conoscenza di questi temi. Anche ai ragazzi, non dobbiamo nascondere niente, ma spiegare che con un gesto piccolo, come una donazione di sangue o di midollo – che si fa tra vivi – possono davvero regalare nuova vita a chi è condannato a morte dalla malattia. Spesso quando leggiamo di queste questioni sul giornale o vediamo una disgrazia al notiziario, pensiamo di essere immuni, che a noi non succederà mai niente di simile. Ma io ho capito sulla mia pelle che non è così. Perciò finché avrò voce, continuerò a testimoniare che dopo i trapianti si può tornare a vivere e che quindi è fondamentale donare, affinché sempre più trapianti siano possibili!