Stivali nel fango

Come suoneria del cellulare, Angelo ha impostato la colonna sonora del western Lo Chiamavano Trinità. Un dettaglio che ben completa l’immagine di questo schivo veterinario di montagna, alto, la barba brizzolata, i penetranti occhi azzurri seminascosti sotto un vecchio cappellaccio di cuoio, gli stivaloni coperti del fango di novembre. Si sposta lungo l’Appennino abruzzese proprio sugli altipiani dove il film con Bud Spencer e Terence Hill è stato girato nel 1970. A volte a cavallo, a volte in auto, visita regolarmente gli allevatori della zona curando il loro bestiame, e fra loro è molto conosciuto e rispettato.

Ho trascorso la giornata in sua compagnia, allungando il passo per stargli dietro in un penoso pellegrinaggio fra quel che resta delle frazioni intorno ad Amatrice dopo il terremoto del 24 agosto scorso. Ha piovuto incessantemente per tutto il giorno, e solo al tramonto un raggio di luce dorata, impietoso, ha illuminato improvvisamente le macerie di Sommati stillanti di pioggia, rendendole per un istante dolorosamente belle.

Sommati, come Cossara, Bagnolo, Grisciano e tante altre delle sessantanove frazioni che, sparse fra le montagne circostanti, appartengono al comune di Amatrice, sono ora abitate solo dalla desolazione, che ne percorre le strade, si infila oltre le transenne e si ferma ammutolita di fronte alle case sventrate. In alcuni casi, solo le pareti esterne sono scivolate via come un telo sopra un quadro, lasciando esposti segmenti di vita quotidiana: letti disfatti e coperte aggrovigliate, tavole ancora da sparecchiare dopo la festa della sera, quadri e televisori.

Altre case sono invece collassate su se stesse: per un’amara ironia della sorte, pochi anni fa in molti sono stati costretti a rinforzare i tetti per scongiurare il pericolo di crolli dovuti alle abbondanti nevicate. I nuovi tetti rinforzati hanno retto perfettamente alle vibrazioni del sima; il loro peso, però ha schiacciato i due o tre piani sottostanti rendendoli alti non più di due metri. Me ne mostra qualche esempio Luca, un giovane allevatore della zona che vive a Sommati. Con suo padre Antonio è proprietario di un terreno vicino alla strada. La stalla dove tenevano il bestiame è stata dichiarata inagibile, e la loro casa, danneggiata dalla prima scossa, è crollata dopo la seconda. La Protezione Civile ha procurato loro un modulo abitativo troppo piccolo e poco coibentato per il freddo invernale che a queste altitudini entra dagli spifferi e ghiaccia le mani come una morsa. Luca e Antonio hanno perciò accettato la donazione, da parte di un’associazione della zona, di un modulo più grande e adeguatamente riscaldato posizionato di fianco al recinto per le vacche. A loro carico pesa ora una denuncia per abuso edilizio. Luca me ne parla con un sorriso amaro, alzando le spalle. “Vogliono che ce ne andiamo, stanno facendo di tutto per convincerci ad andare negli alberghi giù sulla costa. Ma abbiamo le bestie, non possiamo andare da nessuna parte. Vogliamo restare qui”. Suo padre richiama la mia attenzione, mi porta a vedere una vitella nata da poco: “L’abbiamo chiamata Speranza”, mi dice grattandole il muso con fare ruvido.

Laura è stata una delle ultime bambine nate all’ospedale di Amatrice. Adesso ha ventisei anni, e vive nella frazione di Cossara. Prima del sisma lavorava in paese, e dava di tanto in tanto una mano ai genitori e alla zia nella gestione dell’alimentari-tabaccheria della frazione. Nei giorni successivi al terremoto, tutti insieme hanno lavorato per estrarre dalle macerie i prodotti ancora vendibili. Ora vivono in un container ad un centinaio di metri da ciò che resta del negozio. Affissa ad un palo di ferro, la T bianca e nera della tabaccheria. La guarda perplessa. Ridendo, Laura entra nel container e apre una finestra: sul davanzale, un contenitore in legno con decine di pacchetti di sigarette sigillati, divisi per marca. La zia mi invita a entrare, e davanti ad un caffè bollente – “siediti, il caffè va preso comodo” – notano come ultimamente si siano rese conto di quanto poco basta per vivere: “Avevo decine di paia di jeans, ora ne ho due: uno addosso e uno a lavare” mi dice Laura. “E mia zia Nuvoletta, con la sua fissa per le pentole…ne aveva un centinaio, ora ne ha tre”. “Nuvoletta, che nome particolare!” dico. “E non hai ancora sentito tutto! Di cognome faccio Terribile. Nuvoletta Terribile, ci credi? E mia sorella, la mamma di Laura, si chiama Elvis. Nostra madre era di Bologna, una persona eccentrica”. Bevuto il caffè Laura si alza, approfitta della presenza di Angelo per mostrargli una pecora con una brutta infezione alla zampa.

È stata una giornata di freddo, di passi incerti fra i cumuli di macerie, di storie. Angelo sa cosa ci vuole ora: una zuppa calda. Percorriamo una strada sterrata tra i boschi che sbuca su uno spiazzo. È già buio, si distingue appena il profilo di una grande casa in costruzione. Intorno all’edificio, una serie di roulotte parcheggiate. Mentre oltrepassiamo il cancello di ingresso, i fari illuminano per un attimo un’insegna scolpita nel legno “Maneggio Il Destriero”. Non fa una piega, penso fra me mentre cerco di poggiare i piedi nei solchi lasciati nel fango dagli stivaloni di Angelo, che mi fa strada verso la casa.

Una vetrata appannata lascia intravedere solo in parte la scena che ci aspetta all’interno. Un gruppo di persone di varie età, bambini, adulti e anziani, affollano la stanza principale. In molti sono impegnati a riempire un gran numero di scatoloni con i viveri che riempiono un’intera parete di scaffali. Mi raggiunge Monica, una dinamica signora di Brescia che dal giorno del terremoto ha fatto incessantemente su e giù con il camper insieme al marito per portare cibo, vestiti, e ogni altra cosa di cui gli sfollati possano aver bisogno. Mi spiega che stanno inscatolando ciò che è in eccesso per portarlo domani in altre tendopoli della zona. “Se c’è una cosa che non manca, qui, è proprio il cibo! Ci sarebbe bisogno di tante cose, di qualche comodità in più, di intimità…ma il cibo c’è”.

Un gruppetto di bambini abbarbicati su un vecchio divano colorato gioca coi telefoni dei genitori. Uno di loro dorme sotto una valanga di giacche: ha tosse e febbre da qualche giorno, e con questa umidità è difficile guarire. Dietro a questo salotto-magazzino improvvisato, in un piccolo cucinino, un vecchio signore con il berretto sta mangiando pane e latte. Angelo me lo presenta: si chiama Armando e, con i suoi 89 anni, è il secondo ospite più anziano di questo luogo di villeggiatura obbligata. Il primo ne ha 95. La più piccola, invece, 3. A vivere qui stabilmente sono undici famiglie per un totale di circa trenta persone, ma ci metto poco a capire che Il Destriero è un punto di incontro per molti, amici e familiari che passano a salutare coloro che in questo agriturismo in costruzione hanno trovato un rifugio sicuro dopo il terremoto. Angelo me lo descrive come una comune autogestita seguendo poche semplici regole affisse su un pannello alla parete: Tutti devono fare tutto secondo le loro capacità, si rispetta il dolore altrui, si paga in sorrisi e buon umore.

All’ora di cena la casa si riempie. Ci trasferiamo in quella che nel progetto iniziale avrebbe dovuto essere la stalla, e che chiusa alla bell’e meglio è diventata invece il cuore pulsante di questo spazio di convivenza. Gli ospiti fissi e i visitatori occupano rumorosamente le lunghe tavolate coperte da tovaglie cerate a quadretti rossi. La cena viene servita, la zuppa di lenticchie di Norcia scalda le pance e le anime di coloro che, per fortuna e per scelta, sono rimasti.

C’è Anna, moglie di Armando, che mi racconta dello spaesamento provato durante la scossa nel pieno della notte. Ci sono Aurora, Giorgia, Rachele e Riccardo, che al mattino fanno la fila per andare al bagno e prepararsi per la scuola. I loro piccoli spazzolini colorati stanno tutti insieme dentro a un barattolo nel bagno comune. Ci sono le loro madri, preoccupate per cosa verrà dopo. “È stato un bel trauma, il terremoto. Due di loro le hanno tirate fuori dalle macerie e ora le vedi sussultare quando qualcuno sbatte la porta”. Li guardano giocare e commentano: “Qui stanno bene, è come essere in vacanza tutti insieme. Per Natale stanno arrivando tantissimi regali da tutta Italia, ma cosa succederà quando torneremo alla normalità? Loro adesso vivono nell’anarchia totale, nessuno ha il cuore di rimproverarli. Ma dopo?”.

Si parla di ingiustizie, di speculazioni, di una burocrazia lenta che neanche nell’emergenza riesce, o vuole, snellire procedure e processi. C’è al contempo amarezza e rassegnazione nella voce di queste persone. Mi sembra di cogliere un senso di incompletezza nei loro volti. Mezze verità, soluzioni provvisorie calate dall’alto, risposte astratte a problemi pratici ostacolano la pur sempre solida forza di volontà di chi, arrangiandosi, sta cercando di andare avanti. Alla TV passa il numero per le donazioni. Tutti si voltano, a molti sfugge una risata sarcastica. Dal fondo della sala giunge un commento: “Quei soldi servono per tutti i mezzi mandati da Roma che girano a vuoto tutto il giorno da mesi, li hai visti? Se ognuno di quelli si fosse caricato un sasso ogni volta, ora Amatrice sarebbe sistemata”.

Dalla cucina esce un ragazzo con il grembiule. È leccese, cuoco di professione in cassa integrazione. È arrivato la scorsa settimana e rimarrà qui per un mese, a cucinare gratuitamente pranzi e cene per i membri di questa strana famiglia allargata che tra poco si avvieranno verso le roulotte per andare a dormire. Si siede di fianco ai volontari bresciani, e scambia un paio di battute con Angelo sulla bontà del rosso marchigiano. Solidarietà improvvisata che arriva qui da nord e da sud e si concretizza in gesti semplici, inosservati, ma concreti.

Di nuovo la canzone di Lo chiamavano Trinità. È il cellulare di Angelo che suona. “Mia moglie”, dice con un sorriso. Si rimette il cappello da cow-boy ed esce dalla porta augurando la buona notte. Oltre i vetri appannati, lo osservo salire sul suo destriero: una piccola utilitaria arancione coperta di fango.

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