Sunitha Krishnan a Trento

Autori:Sara Caon

Data: 01/12/13

Rivista: dicembre 2013

Il 3 ottobre mi trovavo presso la Sala della Cooperazione, molto incuriosita e molto emozionata poiché veniva per la prima volta in Italia, e per la prima volta a Trento, l’attivista indiana di fama internazionale Sunitha Krishnan, che da tutta una vita combatte la lotta contro la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale. Classe 1972, Sunitha si è laureata in Scienze Ambientali, ha un master in Psichiatria del Servizio Sociale e un dottorato in Servizio Sociale. Ha aiutato centinaia di bambini che subivano abusi e sta lavorando fianco a fianco con il Governo indiano e le Ong per proteggere e salvare, togliendoli dalla tratta e riabilitandoli, donne e bambini vittime di sfruttamento sessuale. Ha fondato a questo scopo l’associazione Prajwala, organizzazione no profit che da 15 anni fornisce assistenza e supporto psicologico, medico e legale alle vittime di sfruttamento sessuale e organizza campagne di informazione e di sensibilizzazione sul tema. Sunitha per tutti questi motivi ha ricevuto lo Stree Shakthi Puraskar, importante riconoscimento nazionale indiano, il Perdita Huston Human Rights Award e il World Of Children Award. Fondazione Fontana nell’occasione ha anche presentato il progetto di solidarietà e sensibilizzazione contro la violenza sulle donne intitolato “100 borse contro la violenza sulle donne”.

Il fenomeno della violenza sulle donne ci lega in tutto il mondo, anche se tendiamo a pensare che possa accadere solo e soltanto “agli altri”. Ogni 22 minuti in India accade uno stupro, al 3° posto nel mondo per crimini organizzati, il traffico sessuale è un’industria da 858 miliardi di dollari: dati massacranti. “Quante persone devono essere vittime di tratta prima che noi rispondiamo a questo problema?”, così Sunitha ha provocatoriamente interrogato la platea. Già, quante? Anche se solo una persona nell’intero e vasto mondo venisse violentata, sarebbe un problema che riguarderebbe tutti, dal primo all’ultimo. Diventa perciò prioritario, se non necessario, prendere forza e coraggio dal legame di solidarietà con altri Paesi ed aprire nuove porte per rompere il silenzio. “Per ogni vittima di tratta sessuale il viaggio comincia da una famiglia che non ha più possibilità di scelta. Si diventa molto deboli, molto vulnerabili, e per questo motivo se qualcuno ti offre un lavoro, se qualcuno ti offre l’amore, sei facilmente ingannabile. La maggior parte delle vittime di tratta non sa a cosa va incontro. Pensano veramente che le cose andranno meglio. Ho salvato più di 8500 ragazze ed ognuna di loro cercava di scappare”, così ha continuato Sunitha, con voce chiara e forte. Ma, tutti noi del pubblico oramai l’avevamo capito, più le ragazze, i cui volti abbiamo intravisto nelle foto, provano a scappare, più provano a resistere, più vengono torturate. Terribili le testimonianze di alcune di loro, attraverso la voce dolce e le parole amare di Sunitha. La maggior parte delle vittime non sa che quando dice quel sì è un sì ad un’intera vita di sfruttamento, e per il fatto che il cliente paga, egli crede di poter fare qualsiasi cosa con il loro corpo. L’immane tragicità di tutto ciò è che solo il 7% di loro viene salvato. “Mentre noi stiamo parlando in questa bella sala, il 93% è ancora in queste condizioni”, in un torbido e perverso circolo vizioso che non forse non finirà mai, remunerativo, certo, per gli sfruttatori, ma certamente non per le ragazze. “Per le ragazze si tratta solo di saldare un debito e poche di loro rimangono sane di mente facendo sesso con 40 uomini diversi ogni giorno, per questo usano droghe”.

Con un groppo in gola, come peraltro il resto della sala, seguivo abbastanza facilmente l’inglese di Sunitha, che sottolineava le atroci parole che le uscivano dalla bocca con ampi gesti delle mani: “I nostri cuori sono bloccati, i nostri tribunali sono chiusi per loro, i nostri governi non hanno fondi sufficienti, le nostre stazioni di polizia sono chiuse per loro”. Dopo un periodo di resistenza, le ragazze iniziano a (o devono?) normalizzare questo tipo di comportamento, e pensano sia solo il loro destino. E allora c’è il rischio che diventino perpetuatrici del crimine. A quel punto, chi avrà fatto di loro delle criminali? “Non è forse per il nostro silenzio e per il fatto che non abbiamo fatto nulla?”, ha riposto Sunitha, provocando i cuori di tutti i presenti. Fare “qualcosa” allora cosa significa? Fare in modo che dalla pena queste donne giungano alla forza, a credere nella dignità e a rafforzare la fede nell’umanità, cosa significa? “Solo il cielo è un limite alle nostre risposte, ma il punto è che dobbiamo rispondere perché nessuna donna, nessun bambino, merita questo”. Come minimo allora possiamo raccontare quanto abbiamo scoperto. Questa la responsabilità che Sunitha ci ha dato, questa la chiamata all’appello. Legalizzazione della prostituzione? “La mia più grande paura è che legalizzare la prostituzione significherà legalizzare lo stupro”, ha risposto lei. A nessuno dei nostri politici, qui in Italia, sta fischiando le orecchie, per caso? Ci vuole forse una piccola, semplice, ma fortissima donna dalla pelle scura per aprirci gli occhi? Siamo specialisti, sì, ma nel vittimizzare le vittime: “All’età di 15 anni ho subito uno stupro di gruppo da 8 uomini. Per un crimine che non ho mai commesso, sono stata isolata per più di due anni. Tutto il mondo mi faceva sentire come se fossi io l’accusata, come se fossi io la responsabile di ciò che mi era successo”. Sentire queste parole, pronunciate in un silenzio quasi imbarazzante, pronunciate con forza, senza paura, senza vergogna, da una donnina alta 1.50 m circa, col sorriso contagioso, è stato un colpo allo stomaco. Un pugno nel mezzo della pancia. Ma che anziché lasciarci intontiti a leccarci le presunte ferite, ci deve dare la sveglia per capire quale deve essere la svolta: per tutte loro dobbiamo trovare un modo di rispondere. Rompendo il silenzio, in primis nelle famiglie ed in primis quello che viene da dentro di noi. Rompendo la cultura della tolleranza che ci rende abituati ed abitudinari della violenza. Ma, soprattutto, rompendo la cultura dello scoraggiamento che ci fa credere di essere troppo piccoli, di non poter fare nulla per cambiare le cose. “Il cambiamento non viene dalle grandi cose, ma dalla risposta che ognuno di noi può dare”, ha concluso questa donna meravigliosa. Fare “qualcosa”, dunque, è semplicemente fare quel passo che ognuno di noi può fare. Quel piccolo gesto che ognuno di noi può compiere. Quella piccola goccia che, citando Madre Teresa, ognuno di noi può portare nell’oceano. “Non ho mai agito come una vittima, e le persone pensavano fossi una persona senza carattere. La loro mancanza di compassione mi ha fatto capire cosa fa la società alle vittime di violenza e mi ha fatto decidere di dedicare ogni respiro della mia vita a combattere questo crimine”. Grazie, piccola donna munita del coraggio di mille uomini. Grazie Sunitha.

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