Lo scorso 17 ottobre al Teatro di Pergine ha fatto tappa Otello Circus, ultima poetica produzione firmata Teatro La Ribalta. Una compagnia che da anni persegue un progetto d’arte professionale che porta attori con disabilità ad esiti di elevata qualità artistica. Un progetto che rifugge l’etichetta di “teatro sociale”, ponendosi invece come intento primario quello di «cogliere il mistero che appartiene all’inesplicabilità dell’arte, mentre la terapia è costretta a fermarsi su quella soglia», favorendo per questa via una più compiuta inclusione culturale e sociale. La replica è stata l’occasione per parlarne con Antonio Viganò, direttore artistico e regista della compagnia.
Come lavori con artisti con disabilità? Come li porti ad un livello artistico alto?
Non credo possa esserci una specificità, un modo diverso di lavorare. L’operazione più grande che faccio riguarda l’ascolto. Mi piace molto l’idea di “scoprirli”. Tra i tanti che hanno partecipato ai laboratori, da sei anni abbiamo scelto che alcuni possano fare la scelta professionale, ovvero rompere il paradigma che per loro il teatro possa essere solo ricreativo, terapeutico, di svago. A noi interessava invece un progetto d’arte. Logicamente, con questo passaggio si passa dall’handicap a persone con un nome e un cognome. Intraprendere la professione dell’attore vuol dire lavorare. Noi ricostruiamo identità e professionalità: sono tutti inseriti in agibilità Enpals, sono lavoratori dello spettacolo a tutti gli effetti, hanno ormai quasi tutti un contratto a tempo indeterminato, con tutte le questioni sociali (TFR, ferie, etc.) annesse. Una compagnia vera e propria, che vuole essere da una parte come tutte le altre, riconosciuta come un soggetto culturale e non sociale, dall’altra una compagnia con delle ombre profonde, dovute ad una condizione che però sul palcoscenico diventa comunicazione. La condizione dell’handicap, del cromosoma in più o in meno, lì per me non c’entra più: deve diventare comunicazione. La qualità del lavoro è dovuta anche al fatto di averci creduto e di avere la possibilità di lavorare con loro tutti i giorni, come con una compagnia “normale”.
Queste caratteristiche di fare un lavoro non sociale ma culturale si vedono molto bene in Otello Circus, dove si nota appunto un ascolto degli attori non in quanto disabili, ma in quanto attori a tutti gli effetti.
Capisco che facciamo un lavoro sociale. Ma tutto il teatro è sociale, che sia fatto da piccolo-borghesi, persone con disabilità, carcerati, proletari o impiegati. Si può aprire un tema più grande e che ci interessa di più: quello della fragilità. I miei attori sono fragili, vulnerabili, portano lo stigma dell’handicap sulla faccia o nel corpo. Ma io credo che la fragilità e la vulnerabilità non appartengano esclusivamente a loro. I miei attori le fanno diventare strumenti d’arte. Siamo umani perché siamo vulnerabili e fragili. Fragilità e vulnerabilità sono nel nostro DNA. Nel momento in cui questi elementi non ci saranno più, non saremo più umani, saremo qualche altra cosa. È difficile racchiuderci in una categoria: cerchiamo di essere un soggetto culturale a tutti gli effetti. Credo che ci stiamo riuscendo, e ci viene riconosciuto: ce lo riconoscono il mercato teatrale, la critica con i premi Ubu e ANCT, i teatri che ci mettono in programmazione. Questo per noi è molto importante.