«Nessun topo al mondo costruirebbe mai una trappola per topi» scriveva Albert Einstein all’indomani dello sganciamento delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Chissà cos’avrebbe pensato delle tecniche di combattimento che, a partire dallo sgretolamento dell’URSS, si sono propagate a macchia d’olio nei conflitti asimmetrici ed etnici che stanno dilaniando il pianeta.
In primis, l’uso crescente di mine antiuomo, ovvero di munizioni innestate nel terreno e pronte a esplodere per mezzo del contatto o prossimità di una persona o veicolo. Le mine possono essere piazzate ovunque, nei campi, lungo la strada, nella foresta, nel deserto, davanti a una scuola o un ospedale e gli effetti sono devastanti.
Tre vittime su quattro infatti sono civili, una su tre è un bambino; alcuni congegni infatti, come le bombe a grappolo e i “pappagalli verdi”, sono realizzati apposta con colori brillanti per sembrare giocattoli. Colpire una donna che va a prendere l’acqua, un ragazzo che fa la legna o un bambino che corre nel prato, non è un’azione militare, ma un crimine, che non ha nessuna giustificazione politica, difensiva o economica.
Va anche detto che i congegni a volte vengono azionati molti anni dopo la fine del conflitto e la loro presenza rappresenta un freno allo sviluppo dell’economia locale. Le attività agricole vengono infatti limitate alla produzione del necessario per la sussistenza e l’irrigazione è ostacolata. Spesso inoltre a cadere nella trappola sono i contadini, di cui la mina causa la morte o l’invalidità permanente, privandoli degli arti, della vista o dell’udito e costringendo i loro figli ancora piccoli ad abbandonare gli studi per sostituirli nella cura dei campi, con la prospettiva di finire un giorno o l’altro allo stesso modo.
Produrre una mina costa pochissimo, meno di tre dollari, ma i danni al tessuto umano e sociale sono enormi e difficilmente si rimargineranno nel breve periodo. Per combatterne la diffusione, le Nazioni Unite hanno istituito quattordici diversi dipartimenti e l’agenzia specializzata UNMAS e dal 1997 celebrano il 4 aprile di ogni anno la Giornata Mondiale per la promozione e l’assistenza all’Azione contro le mine. A ciò si aggiungono numerose iniziative promosse dalla società civile, come quella del colombiano Juan Pablo Salazar. Il suo Paese infatti è, dopo l’Afghanistan, quello con il più alto numero di cittadini mutilati o uccisi dalle mine. Le stime ufficiali parlano di circa diecimila persone, quelle ufficiose di molte di più. In compagnia della sua sedia a rotelle, Salazar ha fatto molta strada, diventando Presidente del Comitato Paraolimpico Colombiano e candidandosi al Senato con un progetto volto all’eliminazione delle barriere architettoniche e alla costruzione di una società inclusiva. In occasione del 4 aprile ha lanciato la campagna Presta tu pierna (presta la tua gamba), una sorta di flash mob in cui ciascuna persona dovrà arrotolarsi simbolicamente un pantalone all’altezza del ginocchio, per chiedere la smilitarizzazione della Colombia e del mondo.
«So che rimboccarci i pantaloni non servirà a impedire alle persone di cadere ancora vittime delle mine, ma servirà a farle sentire meno sole e a far capire ai guerriglieri che noi vogliamo voltare pagina e scrivere per il Paese una nuova storia di pace e riconciliazione» spiega Salazar.
Ciò nella convinzione che in pieno ventunesimo secolo le disabilità vadano combattute attraverso la ricerca e l’impegno civile e non create a causa della stupidità umana. Perciò caro lettore, se ti va il 4 aprile, presta simbolicamente la tua gamba a chi la sua l’ha perduta al modico prezzo di tre dollari!