La pena di morte, comminata nei secoli scorsi con grande facilità, era un modo economico e sbrigativo per togliere di mezzo soggetti sgraditi. Tanto per dire, soltanto ai tempi di Costantino, quarto secolo d.C., fu imposto di aspettare almeno 30 giorni tra la sentenza capitale e la sua esecuzione. Qui a Trento si tenevano in piazza Fiera con gran concorso di pubblico: erano di riparazione per chi aveva subito un’ingiustizia (o per i suoi parenti) e di esempio per tutti gli altri. A partire dal secolo dei Lumi, il 1700, questa vendetta collettiva nei confronti di autori di gravi fatti criminali fu messa in discussione per la sua brutalità: non si può rispondere con un omicidio ad un altro omicidio. Il responsabile di un reato deve essere, per così dire, rieducato e messo nella condizione, una volta liberato, di rientrare nella società e contribuire alla sua crescita. Accettato questo principio, la condanna a morte diventava illogica: mandare a morte qualcuno significa evidentemente riconoscere l’impossibilità rieducarne il comportamento. A metà 1800, alcuni paesi iniziarono ad abolire la condanna a morte, seguiti poi da altri: la principale forma di punizione del crimine diventò la condanna detentiva.
Non dappertutto però!! In molti Paesi fa parte ancora del normale sistema punitivo ed è accettata dall’opinione pubblica. Molte associazioni umanitarie, però, sono sorte in ogni angolo del mondo per combatterla.
In Italia, la più conosciuta è “Nessuno Tocchi Caino”. Ogni anno, nel mese di giugno, presenta un rapporto con cui fa il punto sulla pena capitale. Oggi, su circa 200 nazioni rappresentate alla Onu, 133 l’hanno abolita. Di queste, 81 sono totalmente abolizioniste; 14 abolizioniste per crimini ordinari; 5 con moratoria delle esecuzioni a tempo indeterminato; 32 abolizionisti di fatto (non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni). A questi si aggiunge la Russia che, membro del Consiglio d’Europa, si è impegnata ad abolirla ufficialmente quale pre-condizione per essere ammessa.
Dallo studio si apprende che 63 Paesi, tre in meno del 2002, mantengono la pena di morte anche se non la praticano con assiduità; poco meno della metà nello scorso anno hanno eseguito una condanna capitale. Apre la lista la Repubblica Popolare Cinese con almeno 5.000 esecuzioni nel 2003, 400 più dell’anno precedente, pari all’89 per cento del totale mondiale. Secondo il documento, l’incremento non va attribuito alla mano del boia ma ad informazioni più precise provenienti da quel Paese ed al lavoro di gruppi abolizionisti là attivi.
Dietro, fortunatamente con un ampio distacco, l’Iran a quota 154 esecuzioni, seguito a 133 dall’Iraq di Saddam (che detto per inciso, potrebbe a breve allungare la lista!). L’Africa, una volta in testa alla lista, contrae anno dopo anno il ricorso alla pena di morte: nel 2003 “soltanto” 56 esecuzioni contro le 63 del 2002. Anche le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per le 65 persone giustiziate negli Stati Uniti (erano state 71 nel 2002) e le 3 giustiziate a Cuba (addirittura per fatti non di sangue) dopo alcuni anni di sospensiva. Resta l’incognita sulla realtà di regimi autoritari e difficilmente permeabili come la Corea del Nord o dove c’è uno stretto controllo sulle informazioni come in Siria.
Particolarmente critica la situazione nei Paesi mussulmani dove la Sharia svolge funzione di legge: 412 esecuzioni con metodi spesso crudeli: lapidazione, crocifissione, sgozzamenti, decapitazione e, nei casi fortunati, fucilazione (non che in Europa si usassero i guanti bianchi: garrotamenti, ghigliottina, smembramenti, roghi, ecc.).
I tribunali e governi fondamentalisti e integralisti traducono infatti il Corano in norme penali, punizioni e prescrizioni. Dei 48 Paesi a maggioranza musulmana di Asia ed Africa, 29 mantengono la pena di morte e di questi, 14 l’hanno praticata nel corso del 2003. Le impiccagioni sono spesso effettuate in pubblico (Iran, Arabia) e combinate a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti (la mano ai ladri).
Quest’anno il rapporto “sullo stato della pena capitale” nel mondo è stato dedicato al presidente dello Zambia, Levy Mwanawasa: da quando è stato eletto Presidente nel 2001 si è sempre rifiutato di firmare i decreti di esecuzione delle condanne a morte, commutandone 44 a pene detentive.
Da notare che nei paesi che hanno abolito la pena di morte, l’incidenza dei casi di omicidio non è sensibilmente più alta di quella registrata prima dell’abolizione. Curiosamente poi, negli Stati Uniti dove la pena di morte è in vigore, la percentuali degli omicidi è decisamente la più alta di tutto il mondo industrializzato.
In Italia le ultime condanne a morte furono eseguite nel 1945 a Torino. Poi la costituzione del 1946 la abolì reintroducendo il principio che è dovere dello Stato è aiutare i cittadini condannati per un reato a riabilitarsi e recuperare un posto in società: con 150 e più anni di ritardo su Beccaria. Se questo fortunatamente prevede la nostra Costituzione, diversamente la pensa l’opinione pubblica italiana. Con oscillazioni legate a gravi fatti di cronaca, negli anni ‘70 ed ’80 terrorismo sanguinario e sequestri di persona conclusi con la morte dell’ostaggio, negli anni 90 numerosi omicidi di minori, circa la metà degli italiani è favorevole alla pena di morte.
Abbiamo parlato sopra della pena di morte e della sua abolizione. Ci sono tuttavia altri aspetti della violenza, forse meno atroci e per questo un po’ dimenticati dall’opinione pubblica. Tra questi la tortura. Praticata in vari modi ancora oggi in troppi Paesi, è utilizzata per estorcere confessioni a persone detenute, a renderle più docili, a fiaccarne la volontà. Nel nostro Paese non ne è ammessa alcuna forma, tuttavia l’Italia, nonostante le sollecitazioni, non ha mai adottato una legge che definisca in modo preciso cosa si deva intendere per “tortura” e, di conseguenza, cosa sia proibito.
Ecco perché Amnesty International, in occasione della giornata mondiale dedicata alle vittime della tortura, è scesa in piazza per ottenere un adeguamento della legislazione italiana al diritto internazionale. L’inserimento di un reato autonomo e specifico di tortura nel nostro ordinamento, infatti, è atteso da 16 anni, dal 1988, quando l’Italia ratificò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Per spingere le nostre autorità ad agire, nel 2000, l’Associazione lanciò la campagna di raccolta firme “Dico no alla tortura” per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare alla camera e al senato. Ben 800.000 le firme raccolte tuttora senza alcun risultato: il disegno di legge, ancora in discussione alla Commissione Giustizia della Camera, deve iniziare il suo iter al Senato. Non è da credere che per tortura si intendano soltanto le violenze commesse recentemente ad Abu Ghraib: esse sono anche il prolungato ed ingiustificato isolamento in cella, l’uso di sistemi coercitivi, le botte, le violenze sistematiche.
Amnesty ha chiesto anche al Governo la presentazione di un Disegno di Legge per la ratifica del protocollo opzionale alla Convenzione dell’ONU contro la tortura. Consentirà ad esperti “indipendenti”, ossia non sottoposti al controllo governativo, di visitare centri di detenzione e verificarne il rispetto delle persone detenute. Bouganville