Un nuovo carcere o un carcere nuovo?

Data: 01/12/05

Rivista: dicembre 2005

Il giorno 12 novembre 2005, presso la Sala Falconetto del Comune di Trento si è svolto il convegno “Il carcere oggi: per la sicurezza o per le persone?”
“Un nuovo carcere o un carcere nuovo?” un gioco di parole per la giornata di studio tenutasi che ha visto coinvolti esperti del settore.

Nel presentare la giornata don Cristelli parla dell’esigenza di un nuovo carcere a Trento, ma diverso anche per quanto riguarda la dignità di ogni uomo.
A dare il benvenuto è stato il sindaco di Trento Alberto Pacher. Nel suo intervento ha insistito sull’importanza di promuovere in parallelo la costruzione urbanistica e le politiche sociali per il nuovo carcere che sorgerà a Spini di Gardolo.
Ha preso poi la parola il viceprovveditore del Triveneto, il quale ha parlato del carcere come qualcosa che fa parte della nostra realtà ma che la comunità conosce molto poco, forse per indifferenza, timore o diffidenza. Spiega inoltre quanto sia importante che il carcere come istituzione collabori con altri enti per favorire il reinserimento dei detenuti.
Sergio Bernardi, Michele Gangelmi e Italo Dal Rì hanno tutti insistito sulla questione che il carcere non deve essere solo un luogo di punizione ma anche un via di riabilitazione e socializzazione. Propongono quindi di creare degli sportelli informativi per sensibilizzare chi sta fuori dal carcere e degli sportelli interni per aiutare i detenuti.

Il tema della mattina si è svolto attorno a: “Il carcere oggi: per la sicurezza o per le persone?”. Ornella Favero, volontaria nel carcere di Padova e responsabile del progetto culturale “Ristretti”, ha focalizzato il suo intervento su tre punti:

  1. In Italia ci sono 36 mila detenuti definitivi, ma molti di questi non dovrebbero essere in carcere. Alcuni hanno pene inferiori ai tre anni, quindi con la condizionale potrebbero non stare in prigione; altri invece sono tossicodipendenti che quindi avrebbero bisogno di una comunità più che di un carcere, dove il problema non si risolve per mancanza di personale specializzato;
  2. Il carcere sembra essere solo un luogo di punizione, dove la persona viene privata della sua libertà: “solo un’ora al giorno di aria dove la passeggiata è ridotta a dei vasconi di cemento”, l’incontro intimo coi familiari sembra essere un tabù. Servirebbero spazi d’incontro più vivibili, perché è importante che il rapporto, l’affetto dei propri cari rimanga ben saldo per il reinserimento del detenuto nella società. Si è potuto infatti notare che chi non ha un appoggio familiare nel momento in cui ha finito di scontare la pena difficilmente riesce a tornare alla normalità ed ha più possibilità di ritornare a delinquere.
  3. Nel carcere dovrebbe esserci più spazio per la cultura e per il lavoro. Avere più cultura significa avere più opportunità per affrontare il mondo.

Gaetano Sarrubbo, attualmente direttore del carcere di Trento, dopo gli incarichi a Bolzano, Merano e Rovereto, ha esposto la situazione critica del carcere cittadino, che è molto simile ad altri penitenziari italiani. C’è un grave sovraffollamento; in celle singole ci sono anche tre persone. C’è disagio anche per la polizia che vive all’interno e per il personale.
Franco Corleone, difensore civico per le carceri nel comune di Firenze, ha insistito molto, come altri prima di lui, sul fatto che il carcere non deve essere un lazzareto o una discarica di corpi umani, come è stato più volte definito, ma un luogo per redimersi. È scandaloso il sovraffollamento che c’è in quasi tutte le carceri, soprattutto perché molti detenuti dorebbero trovarsi in altri istituti (es: i tossicodipendenti nelle comunità di recupero).

Maurizio Mazzi, responsabile della conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Veneto, parla del volontariato come una risorsa molto importante. Sarebbe quindi opportuno che ci fosse un volontariato organizzato per garantire i diritti del carcerato. Le attività da svolgere sono di ascolto, di tipo ricreativo, di programmazione che però non sono ancora sufficienti per garantire la dignità di vita nelle carceri ma almeno si tenta di migliorarla un po’.
“Il volontariato deve assumere un ruolo programmatico e politico per migliorare la situazione dei detenuti (es: il carcere di Verona è stato costruito per ospitare 210 persone mentre ora ne ospita addirittura 840!)”.
Aggiunge Mazzi che sarebbe importante creare più centri di accoglienza-assistenza per i detenuti e le loro famiglie e che bisognerebbe creare una rete di informazione ma anche di sensibilizzazione nell’opinione pubblica.

Alla fine della mattinata c’è stata la testimonianza, che penso abbia fatto riflettere tutti, di un ex carcerato, Claudio Vanzetto. Poche parole, ma che hanno colpito. “Voi avete fatto tanti bei discorsi, volete creare un carcere con molti più spazi, ma noi chiediamo cose più piccole. Farci capire gli errori commessi, senza lasciarci in balia di noi stessi. Difficilmente capiamo dove abbiamo sbagliato perché siamo soli e quando si esce dal carcere ci si ritrova ancora più soli e quindi si tornano a fare i reati. I valori insegnati dai genitori, in molti casi, non erano quelli giusti oppure non sono stati recepiti (interiorizzati). Se uno non ha una cooperativa che lo segue torna a un circolo vizioso, quindi a fare reati. Quasi tutti i detenuti non possono fare nulla nel carcere e le figure professionali non aiutano. Non è possibile abbandonarsi sul letto 20 ore su 24 al giorno. Se uno vuole cambiare, anche se ha un carattere forte, da solo non può farcela, perché usciti dal carcere la vita scorre veloce, forse anche troppo. Noi chiediamo molto di meno, voi fate discorsi difficili”. Da notare in questo intervento la contrapposizione netta tra noi e voi.

La giornata di studio è poi proseguita nel pomeriggio con il tema: “Nuovo carcere a Trento: funzionalità e contenuti”.
Silvano Grisenti, Assessore alle opere pubbliche della P.A.T, ha detto che “l’idea di creare un nuovo carcere è partita ancora nel 1991 quando per Natale si era organizzato un concerto all’interno del carcere”. Visitando il carcere di via Pilati ne ha avuto un’impressione molto negativa per le condizioni nelle quali è tenuto. Quindi l’idea iniziale è stata quella di ristrutturarlo in attesa del progetto per un nuovo carcere. La nuova struttura sorgerà a Spini di Gardolo su un’area di 110.000 mq. Per ora questa zona non è molto urbanizzata e quindi, per non far pensare a un nuovo carcere lontano dal resto della cittadinanza, nei pressi sarà costruito un centro ricreativo e potenziate la costruzione di abitazioni e di linee di trasporto.

Cosima Buccoliero, vicedirettrice del carcere di Bollate (MI), parla dell’esperienza di un carcere modello come quello in cui lavora lei. Bollate è stato aperto cinque anni fa, non come sfogo del carcere di San Vittore, ma come laboratorio sperimentale. Le persone arrivano a Bollate solo se lo richiedono e se sono disposte a fare un percorso di lavoro e collaborazione. Il carcere di Bollate funziona molto bene perchè il personale interno, esiguo come nel resto di Italia, viene aiutato dalla comunità esterna: volontari, associazioni, cooperative sociali create con l’aiuto di imprenditori locali danno la possibilità ai reclusi di lavorare all’interno del carcere. Importante è la partecipazione del detenuto: tutte le attività vengono decise e condivise con lui. L’attività lavorativa condiziona tutte le altre attività: scuola, incontri, passeggiate all’aria aperta. Inoltre durante il giorno le celle sono aperte e un detenuto può spostarsi anche da un piano all’altro, per favorire il lavoro e non limitare i rapporti.
Italo Dal Rì, direttore Associazione Provinciale di Aiuto Sociale (Apas) chiede alla Giunta di impegnarsi a stendere un protocollo in cui ci sia anche un peso politico per l’impegno di non sovraffollare il nuovo carcere e favorire gli enti di volontariato.

Violetta Plotegher, assessore alla politiche sociali del comune di Trento, si interroga su cosa si può fare in prospettiva del nuovo carcere. La nuova struttura, che permetterà di migliorare la situazione per quanto riguarda gli spazi, deve far risaltare anche i rapporti – le relazioni che esistono anche all’interno del carcere. Un compito importante è restituire la dignità ai detenuti ma anche a chi lavora all’interno. Le istituzioni devono essere garanti nelle seguenti dimensioni:

  • della formazione del volontario: costui è una persona che attua un rapporto particolare con i detenuti ed è di grande aiuto perché può ascoltare ed essere un confidente;
  • del lavoro: l’amministrazione può collaborare con le realtà delle cooperative che aiutano il reinserimento;
  • della territorialità del carcere in periferia: l’amministrazione si impegna ad aumentare i servizi in modo da rendere la zona viva.

Testimonianza di un ex detenuto in affidamento

Claudio Vanzetto, ex detenuto, ora in affidamento, dice: “La vita in carcere è monotona e stupida. Il carcere è un luogo dove non puoi nuocere a nessuno. Ormai questo posto è diventato un contenitore sociale”.
Claudio più volte afferma quanto sia importante poter parlare, ma non a qualcuno a cui devi chiedere qualcosa (es: l’educatore, lo psicologo…), ma qualcuno che semplicemente ti ascolti, per poter rielaborare ciò che si ha commesso e capire l’errore, in modo da interiorizzare le leggi morali della società.
Fondamentale è l’aiuto che si riceve dalla famiglia e dagli amici; se uno non ha nessuno è abbandonato a se stesso sia dentro che fuori dal carcere. Claudio in questo senso è stato fortunato, perché ha sempre avuto i suoi parenti vicini. Per una persona che vive ristretta le visite o anche semplicemente ricevere una lettera, è qualcosa di molto prezioso, perché in carcere la vita intima, o più in generale, l’affettività si congela.
Secondo Claudio l’essere recidivo (i recidivi sono il 75%) in molti casi è normale, nel senso che in molti casi una persona ha bisogno di più detenzioni per capire i suoi errori, cosa che la società invece non accetta e per questo viene sempre più emarginato. In altri casi invece la persona dovrebbe essere maggiormente aiutata, ad esempio chi è sempre vissuto in mezzo alla delinquenza, chi ha commesso un crimine perché si sente escluso oppure ha subito violenza e quindi questo è il suo modo per manifestare il suo disagio, o ancora si pensi a quanto sia inutile una detenzione per i tossicodipendenti o gli alcolisti. Claudio inoltre parla di quanto sia importante aiutare i ragazzi. Non devono essere lasciati a “rimurginare” sui loro errori, perché ciò, talvolta, li porta a colpevolizzarsi così tanto che arrivano a togliersi la vita (si pensi che la maggior parte dei suicidi in carcere avviene tra i giovani fra i 18 e i 24 anni, nei primi mesi di detenzione).
Claudio sta finendo di scontare la sua seconda condanna. In questi ultimi anni, in carcere, ha avuto la possibilità di finire i geometri (la casa circondariale di Trento porta avanti questo progetto di scuola serale grazie alla disponibilità dell’Istituto Pozzo). Conseguito il diploma di scuola superiore, si è iscritto all’università di giurisprudenza, che tuttora frequenta.

Parlando dei suoi studi, Claudio racconta della paura che ha avuto il giorno della maturità, la paura di uscire fra le persone “comuni”, che di sicuro lo avrebbero guardato con diffidenza. “Il detenuto si accorge di essere trattato come un diverso, lo senti da come gli altri reagiscono, anche perché prima di commettere un reato si cerca di studiare la psicologia degli altri e in questo modo si capisce meglio quello che pensano e provano”. Una cosa che certamente dà fastidio al detenuto è l’essere compatito, che non serve per la sua dignità, ma che spesso si trova ad affrontare, forse per la cultura cattolica che esiste nel nostro paese, che porta a “far amare” anche chi ha commesso qualche errore.
Da luglio Claudio vive in affidamento ordinario, una misura alternativa che si può richiedere se si ha già scontato metà della pena e il residuo da fare non superi i tre anni. Questo affidamento prevede che una persona possa uscire di casa dalle 6.30 alle 22, può girare solo nel Trentino. Per poter godere di questo diritto bisogna trovarsi un lavoro e avere un domicilio. Nel periodo di semilibertà Claudio si è quindi cercato un appartamento; adesso lavora in una cooperativa di tipo “B” e fa il falegname. Questi tipi di cooperative servono per il reinserimento, dando i ritmi lavorativi, poiché sono in concorrenza con il mercato vero e proprio. Le cooperative di tipo “A” invece seguono le persone con più problematiche (tossicodipendenti, alcolisti..).

Claudio, che finirà di scontare la sua pena in marzo, ha deciso di rifarsi una vita in Trentino. In questi ultimi anni ha fatto tanti sforzi per quanto riguarda gli studi, gli auguriamo quindi di realizzare tutti i suoi progetti.

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