Un occhio al posto di un orecchio

Data: 01/04/07

Rivista: aprile 2007

Facciamo un gioco. Chiudiamo gli occhi e restiamo ad ascoltare il racconto di una storia.

A distanza di poco tempo, se interrogati sul contenuto, quanti particolari riusciremo a ricordare? Saranno gli stessi sia per me che per voi? A seconda di quale criterio tratteniamo con la mente i dettagli? Fate una prova. Fatto?

Ripetiamo lo stesso esperimento ma questa volta ci viene chiesto di assistere alla storia, proiettata a mo’ di film (vale lo stesso se trascritta). A distanza di poco tempo, se interrogati sul contenuto, quanti particolari riusciremo a ricordare? Avremo la stessa reazione al racconto, lo stesso livello di attenzione, la stessa percezione degli avvenimenti? Prova fatta? Bene.

Ora sottoponiamo un non-letterato allo stesso gioco, con le stesse modalità, prima l’ascolto e poi il video. Sarà diversa la sua percezione o avrà i nostri stessi ricordi? Cosa tralascerebbe di ricordare la sua mente, gli stessi dettagli che anche a noi sono sembrati insignificanti? Esiste una differenza sostanziale tra l’utilizzo dei nostri sensi, dell’udito rispetto alla vista? Si parla di differenza di sensazioni se si mettono a confronto letterati e non-letterati?

La soluzione? Ve la do io… beh, non proprio. È stato il professor Wilson dell’Istituto di Studi Africani dell’Università di Londra a scrivere un saggio per chiarire se e come l’alfabeto fonetico abbia potuto creare nuove forme di percezione, ovvero se e come con l’avvento della stampa sia potuto cambiare drasticamente il nostro modo di vedere e la nostra impressione della realtà tutta. L’analisi è inserita nel testo La Galassia Gutenberg, di Marshall McLuhan, in cui il famoso sociologo canadese ripercorre i cambiamenti dell’uomo dovuti proprio all’avvento della stampa a caratteri mobili, che ha modificato per sempre la storia della cultura occidentale, segnando il passaggio dalla cultura orale (tribale) a quella alfabetica (civiltà).

Tradotto in parole povere il problema che si discute è questo: cosa è cambiato nell’uomo quando si è trovato a dover “leggere” le parole, quelle stesse che da sempre ha solo dovuto “ascoltare”? Per noi occidentali è un po’ difficile a dirsi, visto che siamo cresciuti con la capacità di intendere con la stessa naturalezza sia parole che immagini. Tuttavia è proprio tale naturalezza che ci impedisce di svelare l’abitudine ad una particolare modalità di percezione, convenzionale e simbolica: con la stampa le parole hanno assunto un mero significato mentale di oggetti statici, astratti, che danno a spazio e tempo il carattere di uniformità e continuità.

Mi spiego meglio. Con l’avvento della stampa abbiamo abbandonato la “sfera tribale”, il mondo magico della parola ascoltata e dunque nostra, “per noi”, forza viva, risonante, attiva e voce naturale della conoscenza. E lo abbiamo fatto per entrare nella “sfera della civiltà”. A che prezzo? Diventando schiavi dell’immagine: leggiamo parole che non ci appartengono più perchè fissate, su una pagina o su uno schermo, di chiunque e in fondo di nessuno, diventate un significato mentale ormai legato al passato. Con l’invenzione di Gutenberg le caratteristiche della cultura alfabetica si amplificano e tutta l’esperienza si riduce ad un solo senso: la vista.

Siamo abituati a consumare passivamente libri, film, siti internet…da non accorgerci che non usiamo l’occhio come organo di tatto, allo stesso modo dei non-letterati, che “sono” interamente con l’oggetto, vi penetrano empaticamente.

La nostra componente visiva, al contrario, è astratta dal resto del complesso sensorio: l’occhio, freddo e neutro (senso dell’individualismo e dell’omogenizzazione) rispetto all’orecchio, caldo e iperestetico, ci fa vivere una alterazione dei sensi, una sorta di perdita d’identità. Il mondo magico dei suoni della parola, che emoziona e sconvolge i nostri sensi, è morto in noi. Solo i valori visivi sono prioritari, sia nell’organizzazione del pensiero che in quella dell’azione.

Vi serve una prova?

A testimonianza del fatto che l’occhio non viene utilizzato allo stesso modo da noi occidentali e dai non-letterati, perchè non abituato in questi ultimi alla convenzione del film, prodotto simbolico anche se molto realistico, e perchè non riesce, se non stimolato nel tempo, a cogliere intuitivamente la veduta d’insieme e la prospettiva, vi riporto il risultato del piccolo gioco che vi ho invitato a fare proprio pochi minuti fa.

Nell’ambito di un tentativo, compiuto dal prof. Wilson prima citato, si servirsi di filmati per insegnare a leggere popolazioni indigene, una buffa curiosità è “saltata all’occhio”. Mostrato loro un breve film, semplice e molto lento, per istruirle su come evitare l’acqua stagnante, ci si è accorti che, se interrogato, l’unico fotogramma che il pubblico ricordava era quello in cui (a sorpresa persino dell’autore, ignaro della presenza dell’intruso) compariva un uccello. Un pollo per l’esattezza. Di tutta la storia il ricordo si è focalizzato sul pollo, che per sbaglio o per casualità è apparso sullo schermo.

Ciò che manca negli indigeni, è l’abitudine alla convenzione, quel patto che noi abbiamo stipulato con le immagini e le parole così lontano nel tempo da non ricordarlo nemmeno più.

Il guaio però è che, ora come ora, siamo completamente diseducati sia all’ascolto che all’osservazione. Noi vediamo, sì, ma è diverso, più superficiale e distratto. Scorriamo il tempo e lo spazio a nostro piacimento, secondo la velocità che noi dettiamo. Ed è facile, perchè abbiamo in mano gli strumenti per farlo, primo fra tutti il web. Sapete che il Time ha incoronato noi come “personaggio dell’anno 2006?”. Noi chi? Noi navigatori di internet…

È questo quello che siamo diventati? È questo che ci distingue? A me sembra piuttosto il contrario: stiamo perdendo la nostra identità culturale e personale, siamo un soggetto collettivo indefinito che rischia di collassare per pigrizia mentale o eccesso di semplicità. È forse vero che stiamo vivendo una frattura, un’alterazione dei sensi che sconvolge la nostra percezione? Forse davvero, senza rendercene conto, siamo in balia dei nostri occhi, che non riescono più da soli a controllare la realtà che scorre troppo veloce, sfuggente, mutevole, inconsistente?!? Forse abbiamo bisogno, oggi più che mai, di essere nuovamente educati all’ascolto, che spesso è anche silenzio, tempo e spazio dilatati, coinvolgimento totale.

Forse è proprio vero che è ora di tornare ad essere padroni dei nostri sensi, di cercare di ricostruire la completezza del nostro essere e del nostro percepire, visto il caos che ci circonda e che ci penetra.

Eppure in fondo… come negarlo, resta il fatto che la realtà che costruiamo e che viviamo, siamo noi.

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