Una favola in una lettera

Data: 01/10/10

Rivista: ottobre 2010

Dal cassetto della scrivania della sua camera in casa dei genitori, riemergono delle vecchie lettere frutto di una corrispondenza epistolare del periodo adolescenziale di Valeria (la chiameremo con un nome di fantasia).

Da quelle lettere ritorna prepotente un passato recente intriso di profondi cambiamenti politici e sociali; i cellulari erano ancora una rarità, il personal computer era entrato nelle case di poche persone e soprattutto non c’era Internet, né posta elettronica, né social network.

Ci si parlava al telefono, oggi diremo di rete fissa o dalle cabine telefoniche, ci si scriveva con carta e penna e la corrispondenza, anziché alla posta prioritaria, era affidata al buon cuore di un postino.

Era l’estate del 1989 quando Valeria, poco più che ragazzina, rispose ad un annuncio di un certo signor Mario R, anziano sessantacinquenne di Napoli, affetto da distrofia muscolare progressiva costretto in sedia a rotelle, che lei credeva suo coetaneo.

Abbiamo estratto dal fascicolo delle cento e più lettere una delle più belle e ve la proponiamo.

Non ci è dato di sapere come si è conclusa quella intensa corrispondenza durata tre anni, ci piace pensare che quell’amicizia così particolare, come tutte le favole, sia terminata con un lieto fine, ma si sa, noi siamo anche dei sognatori…

Stellina Carissima, Napoli, 30 ottobre 1991

L’estate è trascorsa piacevolmente in compagnia delle tue lettere e adesso mi trovo a riflettere sul nostro incontro avvenuto all’inizio del mese.

Mi chiedi, nella tua ultima lettera, di descriverti cosa ho provato quando sei venuta a Napoli in gita scolastica, ed invece di andare con i tuoi compagni ad ammirare le bellezze partenopee, se venuta a casa mia per incontrarmi.

Mi fai sempre domande da un milione di dollari ed io, nel doveroso e piacevole compito di risponderti sento una fitta al cuore, poiché alle volte mi regali delle gioie immense, come quando ti ho incontrata. Un’altra difficoltà che ho nel rispondere alle tue ingenue e cristalline domande, è quella che più ho notato negli ultimi periodi, ovvero la difficoltà di restare sul filo della platonicità, come a noi piace.

Giorno 4 ottobre nella solitudine del mio sacta sactorum, aspettavo che suonasse il campanello, e non mi sono mosso sentendolo; in effetti sono stato l’unico che non si è precipitato a riceverti all’ingresso.

“Perché?” Mi chiedi nella lettera, che adesso stringo tra le mani.

Perché avevo paura! Si, paura; così ho preferito riceverti là dove trascorro la maggior parte delle mie giornate, in compagnia del mio stereo, della mia macchina per scrivere, della mia solitudine e, soprattutto, in compagnia delle tue lettere.

Sei stata fulminea e non mi hai dato neppure il tempo di realizzare, così appena hai varcato la soglia dello studio mi hai abbracciato affettuosamente. E nel mentre mi affannavo a dirti di non piangere, asciugavo le mie lacrime.

È doveroso a questo punto, rivolgere un ringraziamento ideale ai miei familiari che hanno esaudito il mio desiderio e mi hanno lasciato da solo con te; (ne avevamo pur il diritto dopo due anni di corrispondenza alla cieca, allietata solo dalle foto).

Mi auguravo che non mi avresti guardato dalla testa alle rotelle, con curiosa pietà e commiserazione, come di solito fa chi mi vede per la prima volta. E non lo hai fatto.

Sei stata dolce, delicata e carina, come lo è stata solo mia moglie nei primi anni del nostro matrimonio.

I tuoi occhi erano limpidi come uno specchio d’acqua e io non mi vedevo riflesso come un vecchio signore sessantacinquenne anni, ma come il “tuo” Mario R.: il tuo amico dall’età indefinita.

Hai chiesto dello stereo, della macchina per scrivere, dei libri, delle riviste e non ricordo di cos’altro.

Mi hai inebriato con la tua loquacità, mi hai divertito con la tua curiosità ed allegria, mi hai commosso con l’affetto che alitavi ad ogni respiro.

Ed io non sapevo far altro che guardare l’orologio. Te ne sei andata poche ore dopo.

A me quelle ore sono sembrate dei minuti e quei minuti dei secondi ed invece avrei voluto che durassero un’eternità.

Dovevi, inevitabilmente, raggiungere i tuoi compagni in un posto convenuto e chissà quale nota di demerito ti avrebbero dato i tuoi insegnati per esserti allontanata dal gruppo.

Nei giorni precedenti la tua visita a Napoli, pensavo che il nostro incontro avrebbe spezzato l’incantesimo del nostro idillio epistolare, ed invece mi sono dovuto ricredere.

In questi due anni di corrispondenza, pensavo che non sarei vissuto abbastanza per poterti incontrare, ed invece ho visto esaudito uno dei più bei sogni di questi ultimi anni della mia vita.

Non immaginavo che la tua freschezza e la tua vivacità mi avrebbero rinvigorito l’animo, ormai, incartapecorito. E dopo che sei andata via, senza voltarti indietro, mi sono chiuso nel mio eremo ed ho pianto tanto, ringraziando il cielo per sì tale miracolo.

Tuo Mario R.

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