Una fotografia

Data: 01/06/17

Rivista: giugno 2017

Categoria:Sostenibilità e innovazione

Lo zaino del viaggio in Romania è ai piedi del letto, ancora da disfare. Sullo schermo del computer, le fotografie che ho scattato scorrono una dopo l’altra. Foto di gruppo, primi piani di sorrisi, profili assorti.

 

Lineamenti così diversi uno dall’altro: i capelli biondi di chi ha origini ungheresi, i tratti scuri dell’etnia rom, le linee familiari dei figli di italiani. Sono le bambine e i bambini del doposcuola della Fondazione Caminul Francesco, nel piccolo paesino di Beius. Questa settimana, per loro, sarebbe di vacanza. Al doposcuola, però, i bambini sono voluti venire lo stesso.

Qui trovano ciò che nel resto delle loro vite manca. Le fotografie che sto scorrendo riguardano la gita in montagna che abbiamo fatto lunedì. Sullo sfondo appaiono i paesaggi dolci della Transilvania in primavera.

 

All’improvviso, la mia mano che scorre le immagini si blocca. Uno scatto in particolare attira la mia attenzione, e noto qualcosa che non ho notato quel giorno. Ho scattato l’immagine sul pullman in viaggio verso le montagne. Seduto nel posto davanti al mio c’era Alec, 7 anni. Per un po’ ha riso con gli altri bambini, ma poi, quasi senza che me ne accorgessi, si è zittito.

Ho notato il riflesso del suo viso sul finestrino, e mi sono sporta verso la fessura tra il sedile e il vetro, scattando una sola foto. Il suo piccolo naso sfiora appena il finestrino, le lunghe ciglia scure spiovono sulle guance, il labbro inferiore sporge in fuori.

 

Visto così, da questa angolatura, sembra solo assorto. Ne intuisco la vera espressione, a metà tra il triste e lo smarrito, solo guardando il suo riflesso sul vetro.

È come se Alec stesse scrutando in quel riflesso per cercare sé stesso.

È come se non si trovasse. È come se stesse facendo delle domande, e trovasse in risposta solo l’immagine del suo viso stagliata contro il paesaggio fuggevole, già sparito prima che lui sia riuscito davvero ad afferrarlo.

Da qualche parte fuori dall’inquadratura, nei sedili posteriori, ci sono anche Jana, di 9 anni, e Marcu, di 11. Sono i suoi fratelli. Nina, la direttrice del centro, si è seduta di fianco a me e mi ha raccontato la loro storia.

 

Come molti dei trentatré bambini che frequentano il doposcuola, Alec, Jana e Marcu provengono da un contesto familiare turbolento. Nella casa dove sono cresciuti alleggiava l’odore acido dell’alcol, misto alla paura dello scatto di una mano nervosa. Sono stati affidati ai nonni paterni, e solo Marcu, il più grande, vede di nascosto la madre, risposata con un altro uomo che le operatrici del doposcuola sospettano sia altrettanto violento. Marcu compare sullo sfondo di molte fotografie, ma in nessuna sorride. Quando i tre fratelli sono arrivati al centro un anno fa non comunicavano, completamente chiusi verso il resto del mondo.

 

Un anno dopo, i due più piccoli hanno fatto passi avanti, e ora i momenti di chiusura durano pochi istanti, su un pullman che va in montagna. Marcu, invece, parla solo per descrivere gli scenari da incubo che costruisce fin nei minimi dettagli nella sua mente. Ha gravi problemi di concentrazione, e la sua scrittura è un groviglio incomprensibile che ricorda la trama del filo spinato. Paesaggisticamente, la provincia rumena è bellissima. Umanamente, è desolante, e desolata.

 

Chi riesce a trovare lavoro conclude invariabilmente la giornata al bancone del bar. Alla sera tardi, è l’alcol a guidare i pensieri e le azioni delle madri e dei padri, e i risultati lasciano sempre il segno. Molti dei bambini che frequentano il doposcuola crescono soli, ignorati dalla famiglia e della comunità. Nelle classi scolastiche vengono emarginati perché catalogati come irrispettosi, incapaci o violenti. Faticano a rimanere seduti a lungo, si distraggono in fretta.

 

Le loro reazioni sono spesso esagerate, e il rendimento scolastico scarso. Sono bambini dimenticati, destinati a diventare adulti invisibili. Sono i bambini che, alla fine di una penosa giornata scolastica, entrano correndo dal portoncino della Fondazione Caminul Francesco e si gettano tra le braccia morbide delle operatrici.

 

La fondazione è un luogo di guarigione. Qui i bambini ricevono aiuto per i compiti, giocano, imparano a suonare uno strumento.

 

La maggior parte di loro non arriverà alla fine del percorso scolastico, e il traguardo di una vita che valga la pena di essere vissuta sarà semplicemente un lavoro dignitoso. Ma non importa. Forse le braccia aperte, un interesse vero verso il loro piccolo mondo, la sensazione di sentirsi accettati, l’incoraggiamento a fare sempre un po’ meglio di ieri, forse questo basterà a farli uscire dall’invisibilità. Forse questo basterà a farli diventare genitori migliori per i loro figli.

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