Una recensione del film “Wonder”: quando non basta essere “speciali”
Wonder è un film del 2017 diretto da Stephen Chbosky e ispirato al romanzo omonimo di R. J. Palacio, che racconta la storia di August Pullman, un ragazzino che è affetto sin dalla nascita dalla sindrome di Treacher-Collins. Durante la visione del film, il cui titolo in italiano si potrebbe tradurre proprio con “prodigio”, mi è sembrato che gli autori abbiano trasmesso molto bene le sensazioni e le esperienze che anche io, avendo la TCS, ho vissuto nel corso della mia vita. August si è sottoposto a ben ventisette interventi chirurgici (io ne ho fatti solo due), ha paura di affrontare il primo giorno di scuola, deve lottare contro i pregiudizi degli altri, deve faticare per farsi accettare da tutti. La sua condizione influisce inevitabilmente anche sulle vite delle persone a lui vicine: sua madre ha smesso di dedicarsi al proprio lavoro di illustratrice per seguirlo, mentre sua sorella è sempre stata messa in ombra dal fratellino “speciale”. Nel corso del film assistiamo alla maturazione del protagonista, che riesce a stringere le prime amicizie importanti con altri bambini (non senza qualche incomprensione) e scopre che anche chi è apparentemente diverso può avere delle aspirazioni e dei sogni. Partito come scherzo della natura, August finisce per diventare il collante fra i personaggi, che, tramite lui, daranno un nuovo senso alle relazioni umane.
Il film ha lo scopo molto nobile di veicolare dei valori positivi, anche se, c’è da dirlo, la realtà che le persone affette dalla sindrome di Treacher Collins si trovano ad affrontare è molto diversa. Se alla fine August ottiene una medaglia come premio per essere stato uno studente modello, nel mondo reale è molto più probabile che la sofferenza di questi soggetti passi inosservata. Sono stato preso in giro per quattro anni da un professore che avrebbe dovuto tutelarmi; fino a quindici anni non sapevo nemmeno di essere affetto dalla sindrome di Treacher Collins. Sono sempre stato trattato come un idiota; ho messo in dubbio tutte le mie amicizie e le relazioni sentimentali, perché è così che funziona (voglio davvero che gli altri si vergognino di me?); potevo farmi rispettare soltanto coi pugni, e anche lì non è che fossi molto bravo. Non sono mai stato il centro della vita di nessuno, ero semplicemente una persona “brutta”, che è nata così. Nel mio caso la sindrome è apparsa in una forma più lieve: non ero nemmeno abbastanza brutto da meritare compassione. Da noi, a Taranto, si dice sempre: “E che dobbiamo fare?”. Si dice così per tutto, facendo spallucce. Non ho mai ricevuto un atto di gentilezza, anche perché dalle mie parti le persone gentili sono rare in generale. Questo è un aspetto del film che non mi ha convinto molto: i bei sentimenti possono andare bene per un’opera di finzione, ma la realtà è sempre molto più difficile. Non è raccontandoci le favolette che si svolge un’opera di sensibilizzazione efficace e credo che questo sia il problema più diffuso nei film che parlano di disabilità. Fateci soffrire come gli altri, grazie.