Pubblichiamo la seconda parte dello scritto inviatoci dal carcere di Pavia da Vincenzo Andraous, scritto che per la sua lunghezza eravamo stati costretti nel numero scorso a suddividere in due parti.
C’è necessità di un ripensamento culturale che affermi la giustezza di un principio, il quale non è filtrato da scuole di pensiero o strumentalizzazioni ideologiche, in carcere esiste un prima, un durante e un dopo, più il carcere recupererà persone, più il problema della sicurezza sarà soddisfatto, contrariamente a ciò che si è cercato di fare passare come principio sofistico.
Un carcere che umilia, che destruttura senza preoccuparsi di ristrutturare, porterà ad una delinquenza ancora più agguerrita, ad una insicurezza maggiore di quella vissuta nei nostri tempi.
Occorre davvero fare camminare insieme con equilibrio e senza dimenticanze la funzione di salvaguardia della collettività e quella di recupero fattivo delle persone detenute.
In questo ultimo periodo non si fa che parlare di eliminare le vecchie fortezze penitenziarie perché fatiscenti e inumane. Non so perché ma ciò mi fa pensare a quella Edilizia Penitenziaria nata in epoca emergenziale: privilegiando criteri tecnologici di neutralizzazione e incapacitazione,
Per cui se questa è l’ottica mi chiedo dove potrà estrinsecarsi l’aspetto di carattere trattamentale-rieducativo, risocializzante, di recupero del detenuto.
Contraddizione questa, che coinvolge non solo il recluso, in quanto anello più debole (e quindi doppiamente prigioniero del meccanismo perverso che genera il carcere così com’è), ma anche l’Operatore Penitenziario, perchè volente o nolente, egli verrà a trovarsi in una posizione conflittuale rispetto alla consegna che la Costituzione e l’Ordinamento Penitenziario gli conferiscono.
Mandato il suo che striderebbe fortemente in una situazione di sbilanciamento sul versante della sola sicurezza. Infatti l’Operatore Penitenziario ha nelle sue funzioni peculiari il fornire supporto per quell’auspicata risocializzazione dei detenuti, i quali sono soggetti a osservazione e trattamento, ma che a causa del sovraffollamento, dell’esiguo numero di operatori poco possono essere seguiti.
Per cui questo importante mediatore relazionale si troverà anch’esso prigioniero dell’impossibilità di ben operare, di inventare tempi e modalità di esecuzione.
Costruire nuove carceri? Si dice che lo si farà ragionando con il criterio di un paese moderno, ossia all’insegna della sicurezza e del recupero, eppure il personale addetto al trattamento rieducativo continua a mancare, gli istituti obsoleti nati nelle città vengono lentamente smantellati, e quelli nuovi piazzati nelle periferie sempre più remote… a dire dei tecnici per una impossibilità logistica.
Ma così il luogo per eccellenza più separato, escluso, ghettizzato, diventa lo spazio più facile da rimuovere culturalmente.
Se il carcere che si vuole fare nascere non avrà spazi di risocializzazione, perché costruito su un ragionamento di solo contenimento del fenomeno criminale, se gli spazi in questione verranno immediatamente occupati per la troppa abbondanza di carne umana, mi sembra chiaro che continuerà a venire meno la funzione stessa della pena e cosa ben peggiore aumenterà la recidiva e la società si ritroverà in seno uomini ancora più incalliti di quando sono entrati, peggio uomini ritornati bambini incapaci di fare scelte responsabili.
In questo senso assume grande rilievo l’impegno di ognuno, ciò alimentando processi ripetuti di relazioni e interazioni, affinché sia possibile un cammino di crescita individuale attraverso la sinergia di quattro poli convergenti: Magistratura, Istituzione Penitenziaria, Società e Detenuti.
Se solo una di queste componenti viene meno tutto il progetto è destinato a fallire.
Lo stesso dibattito sulla Giustizia e in questo caso sulla pena e sul carcere è costantemente avvelenato dal flusso comunicazionale non sempre corretto e leale. Per cui il bene e il giusto che si riesce a fare in una galera, nelle persone ricondotte al vivere civile, premessa per ogni conquista di coscienza, rimangono ultimi e dimenticati, rispetto al male commesso dai pochi.
Di conseguenza rivendicare la propria dignità, ognuno per sua parte e nel proprio ruolo, sfugge a ogni regolamentazione giuridica e umana, ciò per una politica contrapposta e distante che disgrega e annienta quei “ponti di reciproco rispetto “a fatica mantenuti insieme.
Ci sono molte idee in pentola, personalmente mi limito a ribadire che affrontare il cambiamento è una necessità, come affrontarlo è una sfida per l’Amministrazione Penitenziaria, per i detenuti, per l’intera società. Se il carcere permarrà o scivolerà in un sistema chiuso, esso gestirà i problemi del cambiamento e dell’aggiornamento tentando di mantenere lo status quo ripiegandosi su stesso; se invece diverrà un sistema di detenzione aperto agli ideali nuovi e possibili, allora diverrà anche un luogo di reale testimonianza.
Altrettanto bene so che è innanzitutto al detenuto, che viene chiesto doverosamente di essere all’altezza del servizio offerto (e sarebbe bene intenderlo come una conquista di coscienza e non solo come una mera possibilità statuale), ma questa prigione costantemente costretta a vivere del suo, a rigenerarsi di una speranza pressochè spenta, rafforza la separazione tra il carcere e la società.
Allora come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che avviene o non avviene dentro un carcere? Perché volenti o non volenti, esiste un dopo e questo dopo positivo dipende da un durante solidale costruttivo e non indifferente.
Qualunque sia il fondamento che si vuole assegnare alla morale della pena, qualunque sia il peccato di ognuno, un punto è condivisibile e irrinunciabile: non ci sono contributi “unici” da dare, né costruzioni di prigioni utopistiche, non c’è neppure da inventare una nuova tavola di valori.
C’è solamente bisogno di riempire di contenuti adeguati quel che viene chiamato il bene e il giusto, perché inutile negarlo il carcere è primariamente un male profondo, e se non sarà inteso come ripristino di un senso di giustizia e di possibilità a riacquistare la propria dignità, esso sfibrerà gli uomini ristretti rendendoli insensibili alla necessità di ricucire quello strappo dolente causato con il proprio comportamento.
Vincenzo Andraous, Carcere di Pavia.