Mercoledì 25 agosto, a Villazzano, abbiamo avuto la possibilità di ascoltare la testimonianza di Pietro Terracina, uno dei pochi sopravissuti all’orrore di Auschwitz. Non è facile scrivere delle emozioni che hanno attraversato tutti i partecipanti durante il terribile racconto, ma sappiate che a stento abbiamo trattenuto lacrime e dolore per Pietro,per la sua defunta famiglia, per tutti i morti nei lager e per la rabbia e la vergogna che si prova pensando a come l’umanità abbia permesso che simili tragedie accadessero.
Alle 20.30 Pietro è entrato nell’aula. I nostri occhi, non appena si è tolto la giacca, non hanno potuto evitare di scorrere sul braccio marchiato. I numeri, indelebili, riportano alla mente le immagini di vecchi documentari che ci mostravano volti sofferenti, corpi brutalizzati, violati e umiliati; fotografie e video che una volta visti non possono e non si devono più dimenticare. Questi non sono semplici numeri: sono il marchio che ha rappresentato l’unica identità delle vittime durante gli anni di prigionia. Perché era questo che succedeva quando entravi nel lager: ti veniva tolta la tua storia e la tua umanità. Non avevi più un nome, un passato o un futuro: eri solo un numero, anzi, un pezzo (stück in tedesco). Pietro in quegli anni ha perso tutta la sua famiglia: lui solo è tornato in Italia insieme ad altri 29 superstiti. “Vi racconterò l’inferno cercando di non entrare nei particolari dell’orrore, anche se è quasi impossibile, essendo tutto un orrore”. Dopo questa breve introduzione inizia il racconto:”Il nostro travaglio non è cominciato con la deportazione ad Auschwitz, ma molto prima nel 1938, con le leggi razziali. Queste erano leggi persecutorie e vessatorie il cui scopo era quello di minare la qualità della vita e che non permettevano di vivere bene restando nel Paese, ma nemmeno permettevano di lasciarlo. Ero un ragazzo felice, l’ultimo di una famiglia di otto persone, protetto dall’affetto di tutti. Tre giorni prima avevo compiuto 10 anni. il 15 novembre come tutti gli altri giorni entrai in classe e mi diressi verso il mio banco ed ebbi la sensazione che i miei compagni mi osservassero in modo insolito. L’insegnante fece l’appello ma non chiamò il mio nome; soltanto alla fine mi disse che dovevo uscire e alla mia domanda: ‘Perché? Cosa ho fatto?’ Mi rispose: ‘Perché sei ebreo.”Le persone che prima gli volevano bene ed erano i suoi amici tutto d’un tratto cambiarono atteggiamento nei suoi confronti: diventò invisibile. Fu proprio in quel periodo di emarginazione che Pietro conobbe molti altri ragazzi ebrei che, una volta ritornato in Italia, diventarono la sua nuova famiglia.
Gli anni passarono e fu quando aveva quindici anni che fu venduto alle SS. Era riuscito, insieme a tutti i membri della sua famiglia, a sfuggire al primo sfondamento del ghetto ebraico di Roma, in cui furono imprigionati 1200 ebrei. Trovato un primo nascondiglio, ebbe poi la possibilità di rifugiarsi in una casa abbandonata che gli fu messa a disposizione da un custode di buon cuore. Ma, purtroppo, non tutte le persone furono così magnanime. “In quegli anni ti davano 5 mila lire per ogni ebreo che denunciavi. La gente sapeva che ti stava condannando a morte quando andava dalle SS. Ma non gli importava.”. Così, Pietro e tutti i membri della sua famiglia, furono denunciati da due giovani fascisti romani e il 7 aprile 1944, la sera della Pasqua ebraica, vennero tutti imprigionati. “ Ci arrestarono senza che avessimo commesso alcuna colpa, ricordo ancora quando, come dei criminali, ci presero le impronte digitali.” Terracina non nasconde la vergogna provata in quel momento, la paura, la tensione e l’incapacità di capire tutto quello che stava per accadere. La voce gli si spezza più volte mentre parla. Sono passati più di sessanta anni da quei momenti, ma chi ha subito questo tipo di ingiustizia non può certo trovare consolazione negli anni, “si dice: la vita riprende. Ma non è vero. Finisce, ma poi ne comincia un’altra. Ma il peso di quel passato non ci lascia mai e, a volte, ritorna ed è insopportabile. Non si torna mai del tutto dall’inferno”. Sospira mentre dice questa frase: difficile ripensare a tutto quel dolore, anche se, con le parole, ha affrontato questo discorso tante volte, per far conoscere alla gente quello che è stato. Il racconto prosegue, ci parla del terribile viaggio verso il campo di concentramento: 64 persone di tutte le età, donne anziani, bambini compresi vennero stipati come animali nei carri bestiame sigillati dall’esterno. Viaggiarono per giorni e giorni senza acqua, nel caldo cocente, lasciati a morire sui vagoni. Una volta arrivati ad Auschwitz fu immediata la violenza e la selezione del Dottor Mengele. Chi poteva lavorare ebbe, per un primo momento, la vita salva. Tutti gli altri furono destinati alle camere a gas e ai forni crematori. I vivi furono spogliati di tutti i loro averi, dei loro vestiti; vennero depilati completamente e strappati alle loro identità. I loro bracci furono marchiati e al posto del loro nome ora vi era solo uno sterile numero. La vita al campo non si poteva nemmeno definire tale: i prigionieri venivano sfruttati finchè potevano lavorare, al primo passo falso o cenno di ribellione venivano brutalmente assassinati. La fame, la sporcizia, la stanchezza, la tortura e la disumanizzazione erano ciò contro cui bisognava lottare con tutte le proprie forze per poter avere una flebile speranza di sopravvivenza. La voce di Pietro si spezza ancora e ancora, si fa grave e la sofferenza segna il viso di molti ascoltatori. Come ci aveva premesso non vuole entrare nel dettaglio di quello che ha vissuto, di tutte le violenze di cui è stato testimone: “ tra noi superstiti c’è un senso del pudore che vieta di raccontare agli altri tutto.”. Ma non per questo il racconto è meno duro. L’importanza della testimonianza di Pietro e di tutti i sopravvissuti è fondamentale perché, come lui stesso dice, non è importante che si abbia il ricordo bensì che si crei una memoria, che vinca il tempo, che si trasmetta di generazione in generazione e che non vada persa. È l’indifferenza che ha permesso lo sterminio ed è proprio questa la più grande minaccia da cui ci dobbiamo sempre ben guardare.