«Va a farte veder a Perzen, valà»

Data: 01/06/08

Rivista: giugno 2008

Chi è prossimo alla quarantina o più ricorderà di certo l’espressione del titolo! Fin oltre metà anni ‘70, infatti, il rischio di finire al manicomio di Pergine era così presente tra la gente che bastava un comportamento non consono alla situazione per sentirsi rivolgere, con insolenza o scherno, l’invito: Vecio, va a farte veder a Perzen, valà!

Poi arrivò il 13 maggio 1978, giusto trent’anni fa! Quel giorno il Parlamento italiano decretò con la legge 180 (legge Basaglia) la chiusura definitiva dei manicomi (l’ultimo a Roma, otto anni fa): i cancelli, solidissimi simboli di esclusione, furono aperti per lasciare il passo a migliaia di “matti” in cerca di un proprio vissuto.

Cosa prevedeva la 180? Per prima cosa, riconobbe ai malati psichici il diritto ad una vita di qualità a casa propria o in strutture protette e la cura in ambulatori predisposti sul territorio. Proibiva ogni tipo di contenzione fisica, allettamenti forzati, camicie di forza, terapie violente come l’elettroshok, docce con acqua gelata, denudamenti ecc… Negava il ricovero coatto nei reparti di psichiatria, contemplato solo per i casi acuti, oggi non più di venti all’anno per centomila abitanti, e limitava l’uso di terapie farmacologiche (pur di grande efficacia a partire dagli anni ‘60) per dar spazio ai rapporti umani dei pazienti, per primi quelli con le persone a loro contatto diretto, i terapeuti.

Un passo epocale se pensiamo che questa legge detta ancor oggi le linee guida dell’assistenza psichiatrica in Italia e fa del nostro Paese l’unico al mondo a non avere manicomi, eccetto quelli giudiziari.

Fino a quel 13 maggio di 30 anni fa, ammalarsi di mente significava allontanamento dalla famiglia e dall’ambiente, internamento in ospedale psichiatrico a tempo indeterminato e, in caso di guarigione, marcatura a fuoco per tutta la vita come “quello che era stato in manicomio”. Nella credenza popolare, infatti, una volta matto, uno era matto per sempre! Certi trattamenti clinici erano terribili: attraversare una fase acuta della malattia, mostrare comportamenti aggressivi o autolesionisti significava essere curati con le terapie citate sopra e, nei casi più difficili, segregati dentro un letto di contenzione non per un paio d’ore o un giorno ma per mesi se non anni come i 12 passati da una sfortunata donna.

I familiari, poi, si scordavano in fretta del congiunto perché non volevano essere identificati con lui, non gradivano essere ricordati come il fratello, il padre o il cugino di quello in manicomio.

Ricordo un ragazzo, Giuliano, epilettico a pochi mesi, a fine anni ‘40, dopo aver battuto la testa cadendo a terra dalle braccia della sorella. La possibilità che un’improvvisa crisi di epilessia lo facesse cadere in stato di incoscienza e in preda a convulsioni riduceva a brevi cenni di saluto i suoi incontri con i paesani e spaventava i coetanei che lo evitavano.

I genitori, già anziani, lo proteggevano tenendolo perlopiù in casa sicché, quando la morte del padre rese inevitabile il suo ricovero a Pergine, fu rapidamente dimenticato da tutti. Aveva 18 anni. Da allora non si seppe più nulla di lui se non della morte. Soltanto questo ricordo e qualche scartoffia impolverata testimoniano oggi della sua vita.

In verità l’apertura dei manicomi, a partire dal ‘700 fu un passo avanti rispetto alla situazione in cui erano abbandonati i matti dei secoli precedenti, lasciati per strada, esposti alla derisione con tanto di visite del pubblico (in Inghilterra), accusati di stregonerie, di essere in combutta con il diavolo eccetera… Nei manicomi, almeno, erano custoditi, mangiavano ed erano, per quel che si poteva allora, curati e, se possibile, anche rimessi fuori.

Nella nostra regione, ammalarsi significava manicomio di Pergine, una serie di edifici (padiglioni) aperti nel 1882 con 91 ospiti. Era arrivato ad ospitare sino a 3000 degenti, l’equivalente di un paese come Aldeno. Provvedeva in modo autonomo alla propria sussistenza grazie ad una colonia agricola in cui i ricoverati, in condizioni di poter operare, allevavano mucche e maiali e coltivavano la terra. Oggi i grandi padiglioni all’ombra del castello sono vuoti: i matti se ne sono andati per tornare ad essere “persone”. Vivono in strutture protette tipo casa famiglia, una in San Martino ed un’altra in via della collina oppure alla Casa del Sole, cancello sempre aperto per lasciare all’ospite la scelta se attraversarlo o no. La loro integrazione nel sociale e nel quotidiano passa per attività comuni, a volte eccitanti come la traversata dell’Atlantico in barca a vela e la gita in treno, fino a Pechino!

A questo punto sarà anche chiaro il motivo dell’accenno iniziale ai quasi quarantenni. Oggi lo stesso invito a farsi veder a Perzen risulterebbe incomprensibile ad un ventenne: il manicomio non c’è più e Pergine è soltanto una bella cittadina appena fuori Trento!

La grande intuizione di Basaglia fu la sostituzione del manicomio con una rete di servizi esterni capaci di provvedere all’assistenza di persone con disturbi mentali. Per lui la psichiatria “ufficiale” non aveva compreso i sintomi della malattia mentale e, pertanto, non doveva più essere complice del processo di esclusione del “malato mentale “, voluto da un sistema ideologico convinto di poter negare ed annullare le proprie contraddizioni (il disagio sociale ed individuale) allontanandole da sé ed emarginandole. Parole durissime! Nel 1973 Basaglia fondò il movimento “Psichiatria Democratica” che diffuse in Italia l’antipsichiatria, una corrente di pensiero sorta in Inghilterra nel quadro della contestazione del ‘68. Critica la psichiatria ufficiale perché utilizza impropriamente concetti e strumenti medici, perché tratta i pazienti contro la loro volontà o è troppo autoritaria rispetto ad altri approcci, perché si è compromessa in legami finanziari e professionali con l’industria farmaceutica, perché usa un sistema di categorie di diagnosi stigmatizzante e perché è percepita da troppi dei suoi “pazienti” come opprimente e controllante.

Tratta da dall’enciclopedia on-line Wikipedia, ecco un’illuminante riflessione di Basaglia: «Dal momento in cui oltrepassa il muro dell’internamento (è ricoverato in manicomio, ndr), il malato entra in una nuova dimensione di vuoto emozionale [..]. Viene immesso, cioè, in uno spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell’individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell’internamento. L’assenza di ogni progetto, la perdita del futuro, l’essere costantemente in balia degli altri senza la minima spinta personale, l’aver scandita e organizzata la propria giornata su tempi dettati solo da esigenze organizzative che – proprio in quanto tali – non possono tenere conto del singolo individuo e delle particolari circostanze di ognuno: questo è lo schema istituzionalizzante su cui si articola la vita dell’asilo».

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