A volte, scrivere un articolo può essere divertente, a volte noioso, altre volte fin troppo impegnativo oppure non dare alcuna soddisfazione. Ce ne sono alcuni, però, che non si vorrebbero mai scrivere perché, semplicemente, non c’è niente da dire. Non ci sono certezze, mancano parole, non ci sono risposte e ogni voglia di raccontare si ferma perché qualsiasi cosa tu scriva saranno soltanto parole di fronte a qualcosa di grande e tragico. Sì perché stiamo parlando di vita e di morte.
Tre precedenti. Il primo: la RSA di Povo predisporrà sei posti per giovani in stato di coma permanente in seguito a gravi lesioni cerebrali. Un paziente, in stato vegetativo per ictus, è già arrivato da Villa Rosa. Il secondo: i casi Welby e Nuvoli. Il primo, affetto da distrofia muscolare amiotrofica, aveva chiesto ed ottenuto l’interruzione dell’accanimento terapeutico mediante ventilazione forzata e farmaci che lo “obbligava” a vivere. Il secondo, stesso male da sei anni e stessa richiesta, vedeva negata la sua volontà.
Il terzo: un appello, passato quasi inosservato sui media nazionali, di medici epidemiologici dell’Istituto Negri di Milano: dopo aver denunciato il vuoto legislativo nel quale operano ogni giorno, dichiarano la loro preoccupazione perché nei disegni di legge presentati fino a oggi non si fa cenno al dilemma etico dell’interruzione delle cure per i malati acuti. Ricordano come un altro studio, condotto in 84 centri italiani di terapia intensiva, abbia rivelato che, delle trentamila persone decedute ogni anno nelle sale di rianimazione, quasi ventimila siano morte per l’intervento del medico rianimatore. Più della metà delle morti avviene a seguito dall’interruzione delle cure. I medici la chiamano “desistenza terapeutica”: uno stop a terapie inutili, precisano, che non ha nulla a che vedere con l’eutanasia. Nessun farmaco letale, nessuna iniezione è necessaria per chiudere per sempre gli occhi a questi malati.
Il fatto: in novembre è stato un gran parlare di Eluana, in stato vegetativo persistente e permanente dal 1992. Quasi metà della vita trascorsa al secondo piano di una casa di cura, sezione ortopedia e riabilitazione, assistita come meglio non si potrebbe. Intorno a lei, da allora, una battaglia giudiziaria: il padre chiede da 8 anni, era il 1999, di farla smettere di soffrire, di lasciarla morire, come lei aveva chiesto prima di precipitare in un coma irreversibile per un incidente stradale, da altrettanti lo Stato, trincerandosi dentro la mancanza di leggi che esso stesso dovrebbe fare, gli risponde che non si può.
Una battaglia disumana, forse arrivata ad una svolta: la Corte di Cassazione ha deciso di stabilire un nuovo processo dando torto alla Corte d’Appello che, nel dicembre scorso, aveva respinto la richiesta paterna di sospendere il trattamento nutrizionale della figlia. Era stata l’ottava volta. Adesso la Cassazione sostiene che il desiderio paterno può essere esaudito: qualcuno deve pur decidere se Eluana può vivere ancora! Cancellando il «no» a staccare il sondino di alimentazione, i giudici hanno stabilito che il malato è libero di curarsi, naturalmente, ma anche di non curarsi! Fino alle estreme conseguenze e senza che lo Stato ci metta becco! Se poi il paziente è incapace di intendere e volere, come uno in stato vegetativo da anni, l’autorità giudiziaria può autorizzare i medici a interrompere le cure (sentenza n. 21748 depositata il 16 ottobre).
Finalmente un po’ di chiarezza: il diritto alla vita e alla continuazione delle cure per chi è in stato vegetativo permanente è inalienabile ma non si può imporlo a chi identifica la propria dignità con la propria vita di esperienza sensibile e questa con la coscienza e ritiene illogica una vita senza contatto con l’esterno e una corrispondenza attiva corpo – mente.
D’ora in avanti, dunque, l’autorità giudiziaria potrà autorizzare l’interruzione del trattamento medico chiesta da chi rappresenta il paziente. Un modo di rispettare il malato, all’interno di uno Stato pluralista, possibile a due condizioni: irreversibilità dello stato vegetativo e testimonianze convincenti della voce del paziente e del suo modo di pensare la dignità della persona.
Non eutanasia ma una scelta autentica da parte del malato cosciente e consapevole di lasciare la malattia al suo esito finale o del tutore che tenga conto di sue opinioni in materia prima di cadere in stato vegetativo, della sua personalità, del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei valori di riferimento e delle convinzioni etiche, religiose e culturali.
Il diritto del singolo alla salute è un diritto di libertà che comprende anche un risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire.
È deprimente notare come ancora una volta un potere dello Stato abbia surrogato il Parlamento indicando le condotte da seguire!
Come abbiamo già sottolineato, infatti, in altri editoriali queste decisioni spettano esclusivamente al Parlamento l’unico depositario della volontà popolare.
Compito del Parlamento è legiferare in modo da garantire le migliori condizioni di vita ai cittadini: non farle significa negare loro il diritto ad avere leggi adeguate!