Diciotto ore di volo: contando anche il fuso orario ci vuole quasi un giorno per arrivare in Vietnam. La nostra prima tappa è Ho Chi Minh City, anche se la maggior parte degli abitanti la chiama ancora con il nome che aveva fino al 1975: Saigon.
Obiettivo arrivare nel nord del paese ad Hanoi, la capitale, da dove io ripartirò per tornare in Italia e Federico proseguirà, da solo, il suo viaggio nel Sud Est asiatico.
Viaggiare, per un disabile e con un disabile, non è privo di inconvenienti. Ma quale viaggio lo è?
A cinque giorni dal nostro arrivo possiamo dire che non è solo possibile ma anche divertente. Spesso le persone in strada ci osservano e ci fermano, incuriosite dal ruotino che Federico usa per muoversi.
È il ruotino Offcarr, che si monta davanti alla sedia e che ci permette di girare per ore (anche sei o sette di fila) per le strade di una città che di accessibile ha ben poco. Con nessuno o al massimo un minimo aiuto, Federico sale e scende da gradini e marciapiedi, costantemente affiancato dai numerosi motorini che qui passano ed entrano dappertutto, negozi e hall degli alberghi inclusi. Il che per noi è un bene, perché significa che molti negozi hanno rampe ausiliarie di cui Federico approfitta spesso.
In realtà l’unica cosa difficile nel girare per Ho Chi Minh è imparare il prima possibile come muoversi nel flusso ininterrotto del traffico.
La regola è mai esitare, soprattutto negli attraversamenti. A metà tra un pedone e un motorino in realtà alla fine Federico ha meno difficoltà di me a districarsi nel traffico.
Non ci siamo comunque limitati a visitare la città: in questi primi giorni passati a Ho Chi Minh City abbiamo scelto di osservare il paese da un punto di vista ‘seduto’.
A qualche chilometro dal centro su trova il campi dell’università australiana RMIT: un campus completamente accessibile che abbiamo visitato insieme a Carol Witney, la responsabile dei servizi per gli studenti disabili.
Ogni anno questa università offre infatti alcune borse di studio agli studenti svantaggiati, economicamente o fisicamente.
È grazie a Carol che conosciamo Colin Blackwell, un imprenditore inglese che gestisce una piccola azienda di IT per la quale lavorano quattro programmatori vietnamiti. Tutti disabili. Una scelta, ci spiega Colin, non dettata da ragioni umanitarie ma imprenditoriali. I disabili, specie in Vietnam, spiega Colin, hanno l’attitudine ad osare:
“Per loro nulla è a priori impossibile: vale sempre la pena fare un tentativo”. E per un programmatore è fondamentale.
Colin e i tre programmatori che abbiamo intervistato devono purtroppo salutarci: hanno un incontro di lavoro a cui non possono tardare.
Abbiamo due ore libere e dopo una breve visita al museo dei residuati bellici, dove un’intera sezione è dedicata agli effetti dell’agente arancio durante la guerra, abbiamo un altro appuntamento.
Passiamo il pomeriggio nella sede di DRD Vietnam, una ong nata nel 2005.
La fondatrice si chiama Yen Vo e la incontriamo insieme ai suoi colleghi nella sede in cui si sono trasferiti da poco.
Il ruotino scatena immediatamente la loro curiosità tanto che chiedono a Federico una dimostrazione pratica.
Il problema principale per i disabili in Vietnam, insiste infatti Yen, è l’accessibilità, che combinata ad altri fattori limita anche la loro istruzione e quindi le loro possibilità di lavorare.
“Solo l’1% dei 13 milioni di disabili che vivono nel paese – sottolinea più volte – si iscrive all’università”.
Per ora da Ho Chi Minh è tutto. Prossima tappa Can Tho, sul delta del Mekong, e poi andremo verso nord. Come? Autobus e treno.
Qui i trucchi e gli strumenti che aiutano Federico a creare l’accessibilità anche dove non c’è.
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