Una schiera di seggioline rosse gremisce la palestra. Nel loro colore sbiadito, nel linoleum scheggiato e nelle sbucciature delle pareti si mostra il susseguirsi delle esistenze scolastiche del paese. L’aria si sta riempiendo del vociare dei bambini, entusiasti all’idea di una divagazione dalla tabella di marcia che scandisce i giorni passati ai banchi.
La familiarità che ho con questa grande stanza diventata per l’occasione auditorium allevia la mia ansia. Le parole scritte mi mettono più a mio agio di quelle dette a voce. Tengo in mano un quaderno sgualcito, lo scrigno di un momento lontano ma ancora oggi luminoso, carico di promesse. Dentro, adagiato sulle pagine a righe con una calligrafia così disciplinata da non sembrare affatto imparentata con i miei tratti frettolosi e accidentati, c’è un tema. Un viaggio in Irlanda, i colori, i suoni, i volti di una terra sconosciuta nel mio sguardo di bambina. E un giudizio, “Eccellente”, marchiato a fuoco in fondo al compito, accompagnato da una nota, “Scrivi, Marianna, scrivi!”.
Dopo la fine della scuola, io e la maestra Ada ci incrociammo ogni tanto, venendo a sapere l’una dell’altra soprattutto per vie traverse. Fino ad una mattina di primavera. Lavoravo allora per una ditta di serramenti della zona, avevo fatto uno stage dopo la laurea ed ero rimasta come impiegata. Lei stava ristrutturando casa e aveva preso appuntamento per dare un’occhiata a degli infissi. Non sapeva mi avessero assunta e le spiegai che lavoravo alla reception e curavo i rapporti con l’estero. Aggiunsi anche che scrivevo i contenuti per il sito, i cataloghi, le comunicazioni, fingendomi convinta quando alla sua domanda su come mi trovassi risposi che mi piaceva lavorare lì. Non dissi che mi ero accontentata, ancorata a quel posto dal senso di responsabilità verso un padre stanco e un fratello fragile mista alla mia innata propensione a nascondermi dalla vita. Con un sorriso che, lo percepii, le costava sforzo, la maestra mi disse che era felice per me. Si congedò e s’incamminò verso il salone espositivo, ma decise di fermarsi e tornare indietro. Appoggiò la sua mano sulla mia e, con lo sguardo di una madre o una vecchia amica che capisce senza bisogno di spiegazioni, mi confidò: “Il talento va lasciato correre, se te lo tieni chiuso dentro finisce per consumarti”.
Quelle parole si sono radicate in me e, pur senza particolari cure, hanno fatto tesoro di tutto il sole e la linfa che hanno trovato per sbocciare in una spinta a spiccare il volo. Sono loro che mi hanno portata qui, nella mia vecchia scuola, a parlare dei miei viaggi e dei miei articoli. Mi fanno cenno che possiamo iniziare. Vengo presentata come “la famosa giornalista che ci ha reso tutti orgogliosi”. Ora tocca a me. Mi avvicino al microfono e inizio così: “Quando qualcuno ti guarda e vede in te il tuo futuro, puoi arrivare lontano. Sono qui perché la mia maestra mi ha detto di scrivere, e io l’ho ascoltata”.