LA PACE NON ESISTE

Data: 01/02/22

Rivista: febbraio 2022

La pace non esiste. Esiste, semmai, una temporanea sospensione di guerra guerreggiata, violenta, ma il conflitto, il contrasto, è naturale, onnipresente. Dall’intrapsichico al continentale. Con il primo non andiamo d’accordo nemmeno con noi stessi; poi v’è il conflitto in ciò che immaginavamo fosse un’amicizia ma dopo che la confidenza divenne di dominio pubblico s’è incrinato il rapporto. Non m’addentro nel quotidiano conflitto di coppia. Insomma, nessuno va d’amore e d’accordo perché, per l’appunto, “la pace non esiste” se non nei campisanti. Salendo nella scala gerarchica v’è il gruppo e i gruppi: dall’asilo al commercio si tende sempre a “identificarsi tra simili” diversi dagli altri. In verità l’uomo soffre di solitudine e cerca la relazione con l’altro. Il terreno comune sul quale s’instaura un’intesa è la denigrazione del diverso come raccontano Aldo, Giovanni e Giacomo in “Bauscia e terùn”. Siamo guerrafondai perché soli e incapaci ad affrontare il conflitto, il diverso, l’ignoto.

Infine, gli Stati. Su 192, un terzo è in guerra e un terzo fornisce loro le armi.

E il pacifismo di cui sono parte? Sta in toto dentro la dicotomia amico-nemico, destra-sinistra, di qua o di là. Non a caso è in gran parte un pacifismo militante che non ascolta le ragioni dell’altro e quindi poco si differenzia dall’antagonista militare. 

Ci sarà pur una verità, una purezza da perseguire. Sì; esiste. E non sta certo nel campo della Pace. Ma nella guerra. La guerra nasce dalla purezza. Cos’era la razza ariana se non la summa della “non mescolanza”, della distinzione tra noi e voi. “Ma c’è sempre un puro più puro che ti epura”, parafrasando Nenni. I guerrafondai son coloro che “stanno nel giusto”; che rivendicano la verità. “Dio è con noi” affermavano i soldati sia al di qua che al di là del fronte di tutte le guerre che vengono talvolta interrotte come accadde la notte di Natale del 1914 tra fanti britannici e tedeschi che preferirono intonare canti natalizi che tuonare le armi. 

E la pace? È impura. Piena di compromessi, bilancini, dare-avere. Sono stato all’ennesimo tentativo di conferenza di pace di Bamako in Mali. Al tavolo delle trattative, promosso dalle Nazioni Unite, vennero invitati, assieme agli eserciti regolari, i banditi del momento. Vengono congelate le posizioni/conquiste sul campo. Ciò significa “pieno riconoscimento” alla violenza, agli stupri, ai saccheggi. Si contratta da giorni, mesi in un hotel da cinque stelle dove la tavola è perennemente imbandita. Si contende cosa? Le percentuali sui ricavi d’estrazione mineraria. Denari e ancora denari sul bottino reciproco di morti da far valere. La pace è questa roba qua. Dall’Africa ai Balcani di Dayton. Ma il mercanteggiare prende il posto dello sparare e prende i contorni della politica. E questo fa sperare le popolazioni disgraziate che vengono travolte dalla guerra perché si sono fatte trascinare dentro la spirale dell’odio. Da sempre sono i meno istruiti ad inneggiare alla violenza, a seguire il cantastorie dal futuro radioso. 

Bisogna essere fondamentalmente dei mercanti impuri per sedere ai tavoli di pace. Essere sufficientemente cinici, altrimenti si perde la lucidità. Nelle conferenze stampa vengono citati i diritti umani, quelli ambientali e persino l’agenda 2030, ma la Pace la si fa sempre tra ingordi. E scontenta tutti. 

Ci si siede quando si riconosce nell’altro una qualche ragione, una qualche verità. Si raggiunge una sorta di tregua perché stiamo perdendo francamente troppo in termini di vite umane, opere d’arte, siti Unesco, denari privati. La guerra è insopportabilmente maleodorante. Avremmo voluto fargliela pagare ancora affinché “non cresca più l’erba” ma il puzzo è ormai insopportabile, i pozzi inquinati e i patrimoni sperperati. 

Come uscirne? Assieme. Come direbbe don Milani. E qui entriamo nel regno della diplomazia dove non v’è meraviglia ormai per alcuna delle nefandezze compiute sia durante la guerra che attorno al tavolo di pace. Anche qui la pace non esiste, semmai si costruisce un percorso tortuoso per darsi la parola ma l’odio e la cattiveria la fanno da padroni per anni; per generazioni. Non meravigliamoci se per iniziare una guerra bastano pochi mesi ma per chiuderla un paio di generazioni. L’odio permane anche ad armistizio firmato. E non basterà una generazione desiderosa di vendicare il padre ma forse due perché anche il nonno chiede giustizia. 

E allora? Allora ci si deve allenare al conflitto. A riconoscerlo, a coabitare, a gestirlo possibilmente in maniera nonviolenta certi del nostro probabile fallimento. Non sempre la nonviolenza gandhiana è la strada maestra; a volte i violenti conoscono solo la lingua della violenza. In Kossovo sui muri si scriveva “con i buoni è ancor più bello” mandando in fumo decenni di lotta nonviolenta di Rugova. 

Allora il conflitto va insegnato sin da bambino che bisticcia un giorno sì e l’altro anche. L’educazione comportamentale dovrebbe accompagnarci come l’educazione civica che, per l’appunto, è bistrattata. Dovremmo imparare a occuparci dell’oggetto del contendere, a gestire l’aggressività, a darci equo tempo di parola. E cosa avrò imparato dal conflitto? A gestire ancora meglio il prossimo conflitto come suggerisce Ugo Morelli nel suo “Il Conflitto”. Avrò imparato che una conquista di diritti civili non è per sempre. Nel mondo v’è un ritorno dei nostalgici – l’internazionale dell’odio – e degli Imperi cinese, russo, ottomano e siriano, con la Polonia che schiera il proprio esercito ai confini della Bielorussia. 

Ma è proprio laddove le contrapposizioni sembrano monolitiche – tra NoVax e UltraVax oppure tra i favorevoli e in contrari al ddl Zan – che “il mercante” cerca una terra comune un baratto, un compromesso per fare un passo avanti nella via del riformismo. Eppure, ognuno di noi può sperimentare ogni giorno la chiusura dell’altro, l’impossibilità che la nostra parola faccia breccia. La radicalizzazione anziché l’allentamento delle posizioni. E serviranno a poco le scienze, come la statistica, a demolire i totem. 

E la pace? Un miraggio a cui tendiamo costantemente al fine di “colmare il divario” delle opportunità tra i nord e i sud del mondo. Ma diamoci pace; non esiste. Forse l’unico che si dà pace è il menefreghista che ride contento e non sa leggere e/o comprendere il tempo in cui vive dove abbiamo dichiarato guerra all’ambiente e dove riforniamo di armi i peggiori dittatori che sono la causa degli esodi da un terzo del pianeta. “Me ne frego” era l’antitesi dell’“I care”.

Il “si vis pacem para bellum” non basta. Ora dovremmo educarci al conflitto con il “si vis pacem para pacem” di Filippo Turati. Poco importa se la Pace non esiste o non la raggiungiamo; importa che vi sia una costante tensione e relativa fatica, voglia di sporcarsi le mani, che è propria della responsabilità per andare verso essa. 

precedente

successivo